Qualunque cosa sarà, è gia adesso...

Taluni eventi che voi giudicate appartenenti al passato, per altri appariranno ubicati nel loro futuro o nel presente. Come possimo muoverci liberamente nelle tre dimensioni spaziali, lo possiamo fare anche lungo la dimensione temporale. Infatti Paul Davies, fisico di fama mondiale, non ha dubbi. Alla domanda se è possibile viaggiare nel tempo, afferma che grazie alla teoria di "tempo-relativo" pubblicata nel 1905 da A. Einstein, realizzare una "crono macchina" sia certamente possibile. Del resto il libero arbitrio è soltanto un'illusione. E' un sinonimo di percezione incompleta, noi crediamo di averlo, il che equivale forse alla stessa cosa ? L'inevitabilità è una costante in tutti i sistemi di fede. Prendiamo l'ultima cena. Gesù disse a Pietro che lo avrebbe tradito per tre volte. Pietro protestò, affermando che una cosa del genere non sarebbe mai avvenuta, ma naturalmente accadde. Per non parlare di Giuda Escariota, un personaggio tragico, destinato a denunciare Cristo alle autorità, che lo volesse o no. Il concetto di destino da soddisfare, è molto più antico di quello di libero arbitrio.
La relatività sostiene che nessun tempo è più importante di un altro...l'adesso è una totale illusione e se l'adesso universale non esiste e se il futuro è già tracciato, allora il libero arbitrio è solo una percezione incompleta. Quindi, sono fortemente convinto che il futuro sia immutabile quanto il passato.
Que sera est. Qualunque cosa sarà, lo è già adesso.

sabato 20 agosto 2011

.Concorso vinci GRATIS una copia del romanzo.

Ecco i vincitori: Artic Swan e Eldies, complimenti ad entrambi !!


Oggi 12 settembre 2011,  si è concluso il concorso inerente al vostro commento più originale. Il mio romanzo " I corridori del tempo" verrà inviato alla vincitrice Artic Swan e al vincitore Eldies. Sperando che l'opera sia di vostro gradimento, vi ringrazio di cuore per la cortese attenzione e vi auguro buona lettura.
Brizio Marco.






inviate una vostra opinione inerente i cinque capitolo del romanzo, presenti nel blog.   http://www.anobii.com/chats
http://www.anobii.com/01d6ca182b29d87c06/books
 Leggete le recensioni dei miei libri su: http://www.anobii.com/01d6ca182b29d87c06/books
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sabato 13 agosto 2011

Scrittori amici e links

http://eldieswriter.com/links/amici-scrittori/  Scrittore e autore del bellissimo romanzo " Le porte senza meta ". Di Eldies.

http://firstimpressions86.blogspot.com/  Alessia Carmicino autrice di ottime recensioni cinematografiche e letterarie.

http://valdombrafairies.blogspot.com/  Artic Swan pittrice, artigiana e artista di originalissimi gioielli.

Silvio Donà autore del validissimo romanzo Pinocchio 2112, il futuro è una bugia http://www.fantascienza.com/magazine/notizie/12996/pino…

martedì 2 agosto 2011

Ringraziamenti

Ringrazio di cuore il maestro Giovanni Del sorbo, amico ed autore della copertina del mio libro, lavoro che ha già suscitato molto interesse negli ambienti artistici.
Un grande grazie anche al genio di Sampierdarena, Mauro Colace amico e senz'altro uno tra i nostri maggiori poeti e scrittori italiani.
Non esito quindi ad esprimere la mia ugualmente profonda riconoscenza ad Andrea Mucciolo, autentico faro notturno nel mare tempestoso della scrittura e alla BookSprint edizioni, in quanto nessun libro vedrebbe mai la luce senza un editore.
Aggiungo anche un potente grazie al lettore Mauro Bettini che ha apprezzato l'opera.
Un grazie a Eldies  e al su bellissimo romanzo "Le porte senza meta".
Ringrazio anche la lettrice e autrice di ottime recensioni Alessia Carmicino.
Grazie anche alla perspicace e attenta lettrice Artic Swan.

              AFORISMA:
Non è morto cio' che in eterno può attendere....
E con il volgere  di strani eoni, perfino la morte può morire....

martedì 26 luglio 2011

PER VOI I PRIMI CINQUE CAPITOLI GRATIS DELL'OPERA

      I  corridori del tempo .                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             

Romanzo di Brizio Marco
Letteratura di evasione anno 2011.
Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato.


AFORISMI:

Quando mi sono accorto che il mondo non è come sembra, ho iniziato a scrivere..

Il mio libro è come una piccozza che rompe il ghiaccio che è dentro di voi.

Il libero arbitrio è un'illusione. E' un sinonimo di percezione incompleta.

































Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

Inizio stesura opera agosto 2010, termine luglio 2011.



















CAPITOLO 1: L'impero invisibile

Berlino - 20 aprile 1945 - ore 06,45





La capitale del terzo Reich era ormai avvolta da una colonna di fumo alta oltre 5 chilometri; il bagliore generato dal fuoco era visibile a 300 chilometri di distanza. La contraerea era praticamente inesistente, gli ultimi pezzi da 88mm, i migliori cannoni tedeschi, erano stati posizionati nelle strade per colpire i carri russi T-34.
Spesso gli 88mm colpivano mortalmente i carri armati Sovietici facendoli bruciare come scatole di cerini. Altre volte a incenerire questi mostri blindati da 28 tonnellate d'acciaio con cannone da 75mm e svariate mitragliatrici pesanti erano i ragazzini della “gioventù hitleriana” armati di semplici ma micidiali “Panzerfaust”.
Questi giovanissimi, di età compresa tra i 14 e i 16 anni, quel giorno erano giunti a Berlino in un centinaio. Erano arrivati al fronte con le biciclette, sul manubrio avevano fissato due granate esplosive controcarro mentre sulla schiena si erano legati il Panzerfaust e una vecchia carabina Mauser calibro 7, 62x33mm. Alla sera, di quel centinaio di ragazzini in feldgrau della “Hitler-Jugend”, ne sarebbero rimasti vivi solo 14, e in onore del 56esimo compleanno del Führer, sarebbero stati premiati con la croce di ferro di prima classe. Una medaglia dal nome altisonante ma che comprovava solo la disperazione dell’alto comando berlinese che per resistere a 2 milioni di sovietici e polacchi aveva solo 300mila soldati.
Intanto, mentre i 100 ragazzini della gioventù hitleriana erano stati disposti in Leipzigerstrasse, strada considerata strategica perché posta in mezzo tra il ministero dell'aeronautica e la cancelleria, quest'ultima veniva difesa da ciò che restava di un reggimento della divisione “SS-Charlemagne”.
Nella cancelleria si teneva l'ultimo raduno dello stato maggiore del Führer; i membri erano riuniti in fila nel grande salone, recante i segni dei bombardamenti dell'artiglieria russa, che quel 20 aprile aveva così augurato un buon compleanno a Hitler. All'improvviso entrò il Führer: “La guerra non è ancora persa. Io non abbandono Berlino per nessun motivo...”
Pallidi, silenziosi e ormai stanchi delle deliranti teorie basate sul nulla di Adolf Hitler, che non voleva ammettere che le orde russe erano a pochi chilometri dalla cancelleria e che stavano vomitando cannonate sulla capitale, già ridotta a un cumulo di macerie. Himmler, Speer, l'ammiraglio Donitz e gli altri generalissimi non vedevano l'ora di andarsene dalla città-rovina, popolata da tre milioni di fantasmi.

Hitler, con occhi iniettati di fluido omicida e in preda al suo abituale delirio di onnipotenza, con un ghigno maligno disse: “Berlino non cadrà mai! Sapete perché? Perché mezz’ora fa il dottor Shauberger Viktor mi ha annunciato che l'esperimento legato al progetto “campana” è assolutamente riuscito. Nel giro di cinque mesi al massimo, questa potentissima macchina dotata di elettromagneti da 4 tonnellate ciascuno sarà in grado di generare un campo magnetico talmente potente da piegare la gravità e creare un “cunicolo spazio-temporale”.
Già nell'ottobre del 1944 Von Braun mi garantì che le sue V2 sull'isola di Rugen potevano ospitare cariche nucleari invece che esplosivi convenzionali. Riuscite a capire ora cosa siamo in grado di fare?”
Intanto un tremore fortissimo scosse il corpo del Führer, che perdendo un rigagnolo di bava dalla bocca, proseguì: “Provate a immaginare i nostri V2, non con il solito carico di 100 chili di esplosivo convenzionale, ma con testate atomiche prodotte dagli uomini dell'anno 1990 o 2000, cosa potrebbero provocare!!
Qualche mese ancora e il nostro progetto “campana” sarà pronto. Mosca, Stalingrado, Londra saranno annientate. L'Inghilterra sarà invasa, la Russia brucerà nel fuoco atomico, gli Stati Uniti si ritireranno dal conflitto e l'Europa sarà nazificata in tempi brevi.

….Vedo già l’immane deflagrazione che cancellerà l'uomo, l’incendio apocalittico che travolgerà il mondo, l'ariano oppresso lancerà l'ordigno finale. La Russia intera diverrà un deserto inabitato e la sua aria sarà tenebra tossica per secoli in un cielo ammorbato da una perenne notte...”
Lacrime nevrotiche rigavano il volto giallastro del Führer. In quel momento Himmler osò: “Mein Führer, permettetemi di chiedervi una semplice cosa. Se, come voi sostenete, il progetto “campana” sarà operativo al massimo tra cinque mesi come pensata di resistere fino a settembre con 30mila soldati, di cui la metà composta da vecchi e bambini, contro 2 milioni di sovietici guidati dal generale Zhukov?? O forse sperate ancora che i 200 aerei della Luftwaffe possano distruggere i 6mila aerei russi??”
Hitler non si degnò di rispondere, voltò le spalle di scatto e si diresse verso il giardino posto dietro la cancelleria, poi percorse una lunga scala a chiocciola di metallo che scendeva negli abissi dei sotterranei e raggiunse la porta antisfondamento che, presidiata da numerose SS armate fino ai denti, immetteva nel bunker.


Intanto mentre sorgeva l'alba, una luce itterica si diffondeva lentamente sull’immensa necropoli. I ragazzi della gioventù hitleriana montavano di guardia lungo tutto il perimetro esterno di un’asimmetrica costruzione di cemento posta tra la Leipzigerstrasse e la cancelleria. Con i loro Panzerfaust imbracciati, si muovevano come leoni in gabbia pronti ad annientare i T34 russi. La strada era costellata da crateri enormi causati dai bombardamenti aerei e dalle cannonate. Moltissime case, carbonizzate dalle bombe al fosforo, giacevano inerti con il fuoco che ancora le divorava fino al pian terreno.
Poco distante penzolavano dai lampioni cittadini i tedeschi che si erano rifiutati di arruolarsi nell'esercito del popolo, una milizia civica creata dalla follia del ministro della propaganda Goebbels. Sì, proprio lui, quello zoppo e inguaribile donnaiolo aveva autorizzato i tribunali vaganti composti da fanatici della Gestapo che setacciavano la capitale a caccia di disfattisti. Una volta che li avevano individuati, li impiccavano per strada e li oltraggiavano appendendo sul loro cadavere cartelli ingiuriosi.
A non più di 100 metri dalla gioventù hitleriana vi erano i volontari gallonati della SS-Charlemagne, soldati espertissimi, rotti a ogni esperienza, che difendevano Berlino con grande onore. Con i loro MP-44 calibro 7, 92 mm in mano, i caricatori da trenta cartucce in ogni tasca e bombe a mano nella cintura, avevano occhi che avevano perso ogni traccia di umanità.
Essendo cittadini francesi arruolati volontariamente nella macchina bellica del III Reich in funzione anticomunista, erano ben consci del fatto che in caso di sconfitta vi sarebbe stato ad aspettarli direttamente il plotone di esecuzione riservato ai “collaborazionisti”.

Fin dalle prime ore del 20 aprile 1945, era facile capire che tutto era perduto. La presenza di quei ragazzetti affiancati ai veterani francesi dava alla guerra un volto di disperato fanatismo.
La ventina di volontari SS-Charlemagne, guidati dal colonnello Roger Labonne, avevano ricevuto l'ordine di difendere a oltranza un obbiettivo sensibile più importante della stessa cancelleria. Si trattava di una struttura segreta, detta ”Iceberg”, dove venivano testate le armi che Adolf Hitler aveva definito “terribili”. Pare fossero in grado di rovesciare le sorti del conflitto; sicuramente erano l'ultima speranza tedesca. L’Iceberg sorgeva in una grande area adiacente alla cancelleria, si trattava in apparenza di un bunker di superficie dalle spessissime pareti di cemento armato, ma in realtà era una sorta di tecnologica roccaforte che come un iceberg emergeva solo in minima parte. Il cuore pulsante della tecnologia nazista risiedeva ben 14 metri sotto terra.
Il colonnello Roger Labonne sapeva bene che non si trattava più di respingere i russi nella steppa, ma di impedire loro di penetrare nel cuore dell'anti-comunismo. Un cuore fatto ormai di rottami di ferro ritorto e marmo frantumati dai 610 cannoni russi concentrati dentro e fuori la città. Più di 27 mila tonnellate di bombe di artiglieria stavano polverizzando Berlino. Proprio mentre l'alba di un nuovo giorno di guerra tagliava in due le tenebre, un bagliore maligno illuminò un enorme cratere che ospitava al suo interno un grosso aereo da trasporto tedesco, uno Junker-52, abbattuto dai caccia sovietici. L'ultimo di 700 aerei, tutti distrutti in un solo mese. Con questo preistorico uccello d'acciaio, ultimo della sua razza estinta, morivano anche le speranze di ricevere qualsiasi tipo di rifornimento. A Berlino mancava tutto e i berlinesi, afflitti dalla fame, si erano nutriti di cani e gatti.
Il colonnello La Bonne non riusciva a levarsi dal naso l'odore generato dai vapori della putrefazione, l'unica cosa che nella capitale abbondava. Oltre 30mila cadaveri giacevano sparsi ovunque tra le macerie nelle posizioni più grottesche. Spesso si vedevano lunghe processioni di topi uscire dai corpi, all'interno ormai svuotati dalle vomitevoli creature, che dopo aver banchettato con quei pasti immondi fuggivano dai corpi ridotti a simulacri senza più peso.
Anche il capitano Christian Gauvin scrutava con il suo binocolo in fondo al viale della Wilhemstasse, accovacciato dietro a un mucchio di macerie e con la mitragliatrice pesante MG-42 appoggiata al bipiede. Il suo pensiero andava alla torretta di un carro tedesco interrata in strada a non più di 300 metri davanti a lui. L’88mm del Tigre due giorni prima aveva distrutto tre T-34 russi. Aveva sparato tanto finché la canna era esplosa. Ora giaceva inerte, attorniato da centinaia di giganteschi bossoli sparsi ovunque. Al fianco dell'affusto inutilizzabile stava un SDKFZ-251, un mezzo cingolato per il trasporto truppe della divisione SS-Nordland, che era stato ridotto a una scatola di sardine da un colpo di cannone da 75mm sparato da un carro russo T-34.
Inutile dire che nella sua esplosione il cingolato tedesco aveva sparso tutto intorno brandelli di soldati. Arti, tronchi ed elmetti circondavano quella bara d'acciaio come petali di un fiore maligno che si propagano da una corolla di morte.
Sia il capitano Gauvin sia il colonnello LaBonne, nonostante non si fossero ancora parlati quel giorno, pensavano la stessa cosa. Un pensiero logico e silenzioso, mentre le loro orecchie non facevano più caso alle detonazioni dell’artiglieria sovietica. Rumori forti e pieni, alternati a gracchianti scariche di mitragliatrice che echeggiavano in ogni strada.
Quel caos infernale non impediva certo loro, veterani di lungo corso, di pensare e immaginare la fine verso cui si stavano rapidamente e inesorabilmente avvicinando.

“Colonnello” disse Gauvin.

“Dimmi Gauvin” rispose il colonnello.

“Cosa ne pensa delle notizie che ha portato 20 minuti fa la staffetta motorizzata?”

“Penso che se quelle carogne dell'NVKD intuiscono minimamente quello che facciamo nei sotterranei dell’Iceberg ci scatenano tutta l'armata rossa contro e ci schiacciano come vermi... Due giorni fa ce l'abbiamo fatta per miracolo, ma abbiamo perso 60 valorosi camerati, oggi non vedi cosa abbiamo ricevuto come rinforzo? Cento ragazzini di 14 anni della gioventù hitleriana. Poveretti, hanno il coraggio dell'incoscienza, ma esperienza nulla. E guardaci, noi siamo rimasti in 20, con solo armi leggere e granate: MP-44, fucili Mauser, pistole Walter e i Panzerfaust a carica cava dei ragazzetti...”
Gauvin contrariato rispose: “Colonnello, il dispaccio parla chiaro. I servizi segreti sovietici dell'NKVD sanno degli esperimenti che si tengono nell'Iceberg. Qualche traditore tra i pezzi grossi li ha informati, ma se è vera anche una sola delle cose che si dicono sul progetto “campana”, la guerra può essere ancora vinta. Basterebbe una V2 con testata atomica su Londra e una su Mosca per ribaltare l'esito della guerra”.
Con aria stupita il colonnello Labonne aggiunse: “Gauvin, ti credevo più furbo... Dimmi, ti vuoi bere le farneticazioni del Führer sulla macchina del tempo in grado di mandare degli agenti segreti nel 1990 per carpire la tecnologia atomica e riportarla a Berlino?? Ma sei più pazzo di Hitler.”
Gauvin impettito continuò: “Colonnello, allora mi spieghi perché ieri notte i capoccioni in camice bianco ci hanno dato gli schermi, i filtri da metterci sugli occhi, cappucci protettivi e tute isolanti?? E poi, anche lei ha visto la notte diventare giorno. Per qualche secondo si è vista un'immensa luce, quasi un sole notturno avvolto in un silenzio spettrale.”
Sempre più perplesso da cotanta credulità, il colonnello con aria annoiata aggiunse: “Gauvin, ti ricordi il 3 agosto del 1936 a Berlino quando la famosa regista Leni Riefensthal stupì il mondo con splendidi giochi di luci alle XI Olimpiadi, trasformando i giochi in una dimostrazione di potere del partito nazista? Beh, ieri notte, per me è accaduta la stessa cosa. Un giorno, con quei trucchetti, cercheranno di convincerci che l'uomo sia stato sulla Luna. Ma ora basta viaggiare con la fantasia, pensa che tra qualche minuto in fondo a Wilhemstrasse i bolscevici potrebbero vomitarci addosso l'orda mongola!!”





Nello stesso istante a 2km più a sud.



Belle Alliance-Platz era ormai ridotta a un cumulo di macerie, una visione di morte a 360 gradi, interrotta solo dalla lieve piggia che creava sul selciato, venato e fratturato, una superficie riflettente simile a uno specchio rotto. Uno specchio che evidenziava il grigiore del mattino e la spessa coltre di pulviscolo che aleggiava su Berlino come un sudario di morte.
Al centro della piazza, tre carrozze della linea dei tram berlinesi bruciavano in un rogo che pareva eterno. Quel rogo emetteva bagliori che si infrangevano contro il viso ossuto di Lavrentis Berija, un georgiano dai radi capelli scuri che dal 1934 comandava, per volere di Stalin, la più potente e crudele polizia segreta del partito comunista russo: L'NKVD, il commissariato del popolo. Tutto passava dalle mani di Berija, che dalla sua posizione controllava l'esercito, la polizia e persino i vigili del fuoco.
Anche Stalin, georgiano come lui, lo rispettava moltissimo. Anzi, molti generali della armata rossa sostenevano anzi che Stalin fosse in parte manipolato dal capo del NKVD. Altri, nel mondo della politica, confermavano che Berija era a stretto con il gruppo di potere che aveva permesso a Stalin di prendere il potere... Del resto il capo del NKVD non faceva nulla per smentire le voci.
Berija era un uomo crudele, freddo e determinatissimo. Infatti, anche quella mattina del 20 aprile 1945 aveva un solo pensiero: spazzare via i difensori tedeschi, irrompere nel bunker chiamato “Iceberg” e piazzare ovunque bombe a orologeria. Qualsiasi progresso nazista nella tecnologia dei “portali dimensionali” andavo affogata nel sangue.
Del resto, per il capo dell'onnipotente polizia segreta comunista, il sangue non era un elemento sconosciuto, anzi...
Alle sue spalle tutto era pronto: quattro T34 con la stella rossa ben verniciata ai lati riscaldavano i potenti motori irrorando l'aria di idrocarburi combusti ed emanando un barrito che sembrava scaturire dalle fauci del gigantesco pachiderma d'acciaio.
Alle loro spalle erano schierati in formazione 120 uomini della divisione “Seydlitz”, detti i “tedeschi-rossi”, tutti ex prigionieri di guerra convertiti al comunismo. Erano i più fanatici e uccidevano i loro stessi compatrioti con estremo piacere. Certamente immaginavano e speravano che, vinta la guerra, sarebbero potuto divenire i nuovi centurioni della Germania comunista.
Infine, perfettamente inquadrati, 110 soldati dell'armata rossa. Tra i loro ranghi vi erano i micidiali cecchini siberiani, armati di splendidi SVT-40 con ottica, i fanti georgiani, caucasici, mongoli, cosacchi e russi, tutti dotati del fucile d'assalto Ppsh-41. La micidiale arma automatica del popolo che aveva falciato vite naziste su tutti i campi di battaglia della guerra.
A chiudere i ranghi, vi erano nelle retrovie 20 fanatici agenti del NKVD. I quali, come il loro capo, operavano con abiti civili, costituiti da spessi cappottoni neri e colbacchi dello stesso colore. Unico segno di riconoscimento era un bracciale con la falce e il martello sul braccio sinistro. Tutto il loro armamento era stato catturato al nemico, quindi in dotazione avevano solo armi tedesche: mitra MP40 calibro 9 parabellum, pistole Walter P38 e le micidiali mitragliatrici pesanti MG-42, dette la “falce di Hitler” e utilizzate proprio per falciare gli eventuali compagni in fuga davanti al nemico.
Berija si aggiustò sul naso gli occhialini circolari da intellettuale poi, voltandosi, si diresse verso l'unico prigioniero che i suoi soldati tenevano sotto tiro. Si trattava di un civile, un vecchio tedesco sulla settantina, scovato mentre dormiva in uno scantinato di un palazzo sventrato in Belle-alliance Platz. Il capo del NKVD sapeva benissimo che il vecchio non era certo un ostacolo alla missione, ma ormai erano settimane che era in astinenza. Trattenersi diventava sempre più difficile e spesso attacchi improvvisi di febbre e tremore gli squassavano il corpo. Lo sforzo mentale per mantenere aperti i codici genetici responsabili dell'aspetto umano esteriore era ormai immane e presto i suoi uomini avrebbero visto ciò che da migliaia di anni la sua razza cercava di evitare.
Il sangue umano era vitale per questi processi biologici, ma ancora più necessaria era l'adrenalina che entrava nel flusso sanguigno della vittima negli ultimi momenti di terrore assoluto.
Berija disse con un filo di voce: “Caporale tenga fermo questo lurido nazista, ora gli insegneremo che a invadere la patria degli onesti lavoratori comunisti si paga con il sangue.”
Con un gesto teatrale, il capo della polizia segreta estrasse dallo stivale una lunga baionetta. Sapeva bene di terrorizzare la sua vittima con quel coltellaccio, e del resto era ciò che cercava e anelava. Adrenalina pura spruzzata direttamente nel flusso sanguigno, l'unico liquido organico in grado di ristabilire l’assetto genetico dell'antica razza.
L'acciaio lucido e affilatissimo si conficcò con una lentezza esasperante nella zona laterale del collo del vecchio, che rovesciò gli occhi all'indietro scalciando come un epilettico. Mentre il caporale teneva ferme le braccia dietro la schiena della vittima, Berija ritrasse con velocità fulminea la baionetta dalle carni del vecchio e, prima che il fiotto sanguigno potesse zampillare dalla profondissima ferita, si attaccò alla stessa con la bocca e prese a succhiare con forza il liquido vitale.
Alla terza sorsata, il caporale, pallido di follia, fece cadere a terra il corpo del vecchio non ancora morto.
A quel punto Berija, ormai satollo e con la bocca e il mento sporchi di sangue, estrasse la P38 ed esplose due colpi in piena fronte al tedesco. Poi, pulitosi sulla manica del cappotto i segni dell'immondo pasto, si preparò a catechizzare i soldati sulla necessità politica di eliminare qualsiasi forma di pietà verso i nemici. Tutta propaganda utile a giustificare il suo malsano atto e farlo passare per qualcosa di simbolico ma necessario. Il discorso, pensava, avrebbe spostato l'attenzione dei suoi uomini. Del resto la sua razza da migliaia di anni manipolava nell'ombra l'umanità.
Mentre arringava la truppa con parole che conosceva a memoria, la mente del capo del NKVD divagò tra una moltitudine di pensieri scomposti come un mosaico in frantumi, i cui pezzi colorati volteggiano nell'aria in un moto rallentato. Pensava alla facilità con cui la sua razza era riuscita a creare a tavolino nel 1919, durante la conferenza di Versailles, i presupposti per la seconda guerra mondiale. E la seconda guerra mondiale, a sua volta, avrebbe conferito al mondo un assetto politico-economico favorevole alle multinazionali gestite dai suoi simili che da 7 mila anni stavano manipolando l'umanità.
Poi il suo pensiero si spostò sul povero Stalin, così fiero della sua rivoluzione, così impettito; non avrebbe mai saputo che era stato messo al potere da qualcuno che lo manipolava a piacimento.
All'improvviso la sua mente tornò a focalizzarsi sul vero scopo della missione del giorno: impedire a tutti i costi che la sua antichissima razza potesse rischiare di essere smascherata e di finire massacrata dalle “scimmie parlanti” del futuro. Sembrava pazzesco, ma le visioni non sbagliavano mai.
Le informazioni telepatiche che viaggiavano tramite il loro DNA collettivo sovente sconvolgevano la mente di Berija, gettandolo nel panico. Se questo era il futuro la sua razza doveva agire, non poteva essere umiliata dagli umani e fatta oggetto di caccia. La Terra era il loro mondo, molto prima della venuta dell'uomo. Le scimmie erette erano da sempre stati i servi e gli schiavi dell'antica razza e tali dovevano rimanere.
Berija scosse la testa fortemente, come per allontanare quegli abissi di terrore. Ora sapeva che se per salvare il futuro dei suoi simili sarebbe stato necessario distruggere quella maledetta base sotterranea nazista, con tutte quelle scimmie parlanti in camice bianco e i loro macchinari. I ragazzetti della gioventù hitleriana e un pugno di collaborazionisti francesi della SS-Charlemagne non sarebbero certo bastati a fermarli!
Ma mentre Berija terminava di aizzare la sua truppa, il caporale Trojanovskij per un attimo vide distintamente le pupille del capo dei servizi segreti comunisti rimpicciolirsi e stringersi verticalmente in un modo identico a quello dei serpenti. Ma in cuor suo il soldato pensò che un simile abominio era sicuramente provocato da tutte le brutture che la guerra gli aveva fatto vedere.





Poco dopo.



“Colonnello, stanno arrivando. Mandano avanti i T34. Sarà dura…” disse con aria pensierosa il capitano Gauvin.
“Fai avanzare i camerati con le granate da lancio e avvisa i ragazzi della Hitlerjugend di imbracciare i Panzerfaust per avvicinarsi più possibile ai carri armati dei comunisti e sparare a bruciapelo” rispose il colonnello Labonne.
Subito le SS francesi della divisione Charlemagne corsero a testa china lungo ciò che rimaneva della Wilhemstrasse impugnando nella mano destra una dozzina di granate con manico “Modell 24” tutte legate tra loro; erano costretti letteralmente a strisciare sul suolo irto di barricate di fortuna e di rottami di veicoli Volkswagen da trasporto truppe. Il tutto mentre le mitragliatrici pesanti dei quattro mastodontici carri russi sputavano fuoco di piombo incandescente. Un fuoco tremendo e potentissimo, ma impreciso e troppo alto, visto che andava a schiantarsi sulla facciata del ministero dell'aeronautica, già ridotto in un colabrodo. Pezzi di intonaco e cemento cadevano a profusione sugli elmetti dei soldati tedeschi. Un fante delle SS, veloce come una lepre, era riuscito ad avvicinarsi al T34 e a gettare sotto il cingolo le 12 granate legate insieme. Poi, coperto dalle interminabili scariche delle mitragliatrici MG42, si lanciò dentro un cratere molto profondo, scavato dalla martellante artiglieria sovietica e rimase ad aspettare che la potentissima esplosione spaccasse il manto stradale e il cingolo del T34. Quando il cingolo si spezzò, il T34 fece testacoda impuntandosi sull'altro cingolo e immobilizzandosi come un mastodonte d'acciaio paralizzato. Ora, per farlo incendiare non rimaneva che attendere l'opera della gioventù hitleriana.
Una sessantina di ragazzetti, con un'età compresa tra i 14 e i 16 anni, armati solamente di Panzerfaust e spinti da un coraggio inaspettato, si gettarono sulla preda metallica come locuste fameliche.
Gli altri tre carri armati russi si fermarono per fornire fuoco di copertura senza rischiare inutilmente i mezzi. Dietro di loro stavano arrivando i 120 soldati della divisione “Seydlitz” armati di Moisin-Nagant cal 7, 62x54r e 110 fanti dell'armata rossa che già davano la parola ai loro fucili d'assalto Ppsh-41. In un attimo sui giovanissimi nazisti venne vomitata addosso una pioggia di fuoco talmente violenta da annullare il rumore dei caricatori a tamburo da 71 colpi nazisti.
I ragazzini cadevano come mosche, chi falciato dalle mitragliatrici del morente carro armato russo, chi centrato in pieno cranio dai cecchini siberiani che, posizionati sui tetti dei palazzi adiacenti, con i loro SVT40 Tokarev non sbagliavano un colpo. Senza contare lo strazio compiuto dai cannoni da 88mm dei T34 sovietici tra le già decimate fila dei giovanissimi. Gambe e braccia volavano ovunque, sangue vaporizzato si elevava in aria simile a colonne vermiglie. Ossa, tendini e muscoli venivano annichiliti al suono di titanici tuoni di morte. Ma essi continuavano imperterriti a combattere e ad avanzare in quell'inferno di fuoco e morte. Si facevano uccidere sul posto senza un grido, senza un'invocazione di aiuto. Correvano come demoni. Nessuno, tuttavia, era riuscito a usare il Panzerfaust.
Il colonnello Labonne urlò a squarciagola: “Aumentate il fuoco di copertura, sparate sull'armata rossa!”
Le MG42 e le mitragliatrici MP40 aumentarono all'unisono la cadenza di tiro sui fanti russi che, ben riparati dietro i loro carri armati, fino a quel momento non avevano ancora subito perdite.
Proprio nel preciso momento in cui i russi non rispondevano più al fuoco e gli 88mm dei T34 rallentavano il cannoneggiamento, due ragazzetti della gioventù hitleriana riuscirono a posizionarsi a 60 metri dalla parte posteriore del T34 con il cingolo rotto. Con i polmoni in fiamme e gli occhi ardenti dal desiderio di apporsi il gallone sul braccio destro, si inginocchiarono dietro a un cumulo di macerie, sollevarono l'arma controcarro detta Panzerfaust, lunga un metro e pesante sei chili e mezzo, poi inquadrarono velocemente l'obbiettivo nell'alzo metallico e fecero fuoco all'unisono. Due razzi a carica cava lasciarono il tubo di lancio a una velocità impressionante. Uno andò a schiantarsi sul cingolo posteriore destro, l'unico ancora funzionante. L'altro, quello fatale per il T34 russo, colpì in pieno la parte posteriore del carro. L'esplosione fu immane, litri e litri di combustibile in fiamme si propagarono nel raggio di 20 metri. In cielo si elevò una colonna di fumo nero e acre, mentre i due giovanissimi tedeschi rientravano increduli nelle retrovie.

L'equipaggio del T34 continuava a bruciare con i resti del carro, ridotto a un'immensa torcia di fuoco!
Per un momento sembrò tutto tacere. I russi rimasero stupefatti, mentre i tedeschi si abbracciavano come bambini.
Ma il colonnello Labonne sapeva bene che per distruggere un T34 aveva dovuto perdere 58 soldatini della gioventù hitleriana. Infatti, immediatamente il capitano Gauvin, dopo aver abbracciato il colonnello, disse con aria stupita: “Colonnello, ma cosa fa?? Non esulta? Si rende conto che gli abbiamo fatto saltare in aria un carro armato e gli altri tre si ritirano??”
Urlando il colonnello rispose: “Sei tu che non ti rendi conto deficiente. Gli altri tre T34 non fuggono, ma arretrano per colpirci con i cannoni da una posizione più sicura, e poi scagliarci contro tutta la fanteria. Saranno almeno 250 veterani di guerra assetati di sangue e vendetta. Con cosa ci difenderemo? Te lo dico io: le nostre esigue forze ammontano a 42 ragazzetti che a ogni assalto muoiono come mosche, e noi pochi veterani. Ciò che rimane della gloriosa divisione SS-Charlemagne, 20 combattenti con poche munizioni e senza nessuna speranza di ricevere rinforzi.”
Il capitano Gauvin, un poco offeso, rispose agitando in mano un foglio di giornale rovinato, trovato sicuramente tra le macerie: “Colonnello lo vede questo, è di pochi giorni fa; è il “Panzerbaer, l'orso blindato, il giornale di Goebbels. Dice che secondo il ministro della propaganda Berlino sarà una gigantesca fossa comune per i carri russi...Vede, c'è scritto!”
Il colonnello si voltò dalla parte opposta, non degnando il suo sottoposto di risposta.



Gli uomini del capo del NKVD, il commissariato del popolo e i castigamatti del partito comunista avevano eseguito gli ordini alla lettera. L'armata rossa e i “compagni” tedeschi filobolscevici avevano arretrato la linea del fronte di 800 metri, così come avevano fatto i T34.
Berija stava scrutando i nemici, ultimi difensori della base chiamata “Iceberg”. Li inquadrava con i binocoli: erano ridotti a degli stracci. Certamente la distruzione del carroarmato li aveva caricati, ma di veri combattenti ne vedeva al massimo una ventina. Perché, per i suoi soldati, i giovanissimi del Hitlerjugend non rappresentavano certo un problema. Presto il suo vero obbiettivo, situato tra il ministero dell'aeronautica e la cancelleria, si sarebbe trasformato in un mucchio di cemento fumigante: il progetto “campana” sarebbe andato in fumo, trascinando con sé, in una eterna tomba abissale, tutto il pericolo che rappresentava per la sua antichissima razza. Da millenni “loro” erano i padroni veri della Terra e nulla doveva cambiare né nel presente, né nel futuro.
Il braccio destro di Berija si alzò semplicemente verso l'alto, poi si abbassò di colpo, mentre un urlo rauco scosse i ranghi: “Per Stalingrado!!!!”



Da tempo i volontari della “Charlemagne” avevano cessato di essere uomini. Il mondo che gli si prospettava era peggio della morte: vivere sotto il tallone di ferro del comunismo era improponibile, mentre finire davanti al plotone d'esecuzione, come collaborazionisti era molto probabile. Quindi, avrebbero combattuto sino all'ultimo uomo. Combattere e morire, per quella ventina di SS che volevano difendere la civiltà occidentale dalle orde barbariche, era tutto ciò che restava.
I cannoni da 88mm dei carri russi ripresero la loro sinistra opera di demolizione. Tutti i ripari, gli anfratti, i crateri e le barricate che offrivano riparo ai tedeschi furono polverizzati. Ora nulla poteva nascondere i difensori, nulla poteva più fermare l'orda sovietica. Le perdite tra le file naziste furono gravissime, dopo 20 minuti di cannoneggiamento, dei giovani hitleriani erano vivi solo 16 e dei veterani delle SS ne rimanevano in piedi 12, di cui due feriti importanti, il colonnello e il capitano Gauvin.
I carristi dei T34 si erano dovuti fermare per mancanza di proiettili da 88mm, le loro canne erano al limite dell'esplosione, mentre la fanteria composta da 250 soldati già inseriva la baionetta ai fucili urlando: “Per Stalingrado!!!!” Poi presero a inseguire i pochi tedeschi sopravvissuti, che si ritiravano velocemente verso il complesso bunkerizzato, per immolarsi davanti all’obbiettivo da difendere. Visto che sarebbero morti, lo avrebbero fatto tenendo le posizioni fino all'ultimo uomo, proprio come aveva ordinato il Führer. Proprio come avevano giurato all'accademia delle SS di Badtolz urlando “Il mio onore si chiama fedeltà”.



Dal fondo di Wilhelmstrasse, 20 soldati in mimetica nera, senza alcun segno di appartenenza, erano giunti silenziosamente dietro le unità russe. Come ombre sbucate da chissà dove, presero rapidamente posizione al riparo di tre vagoni dei tram berlinesi pieni di macerie e pietre e utilizzati come barricate dalla milizia popolare tedesca formata da ultrasessantenni e detta Volkstrumm.
I soldati ombra erano un'anomalia vera e propria: i loro toraci erano protetti da giubbetti antiproiettili con speciale protezione pelvica, in testa indossavano caschi balistici integrali con maschera blindata in grado di proteggere il viso dai proiettili, guanti tattici antiurto e mimetica al “nomex” resistente al fuoco. Senza considerare il loro armamento, una vera discrepanza temporale, composto da fucili d'assalto Colt M4 con lanciagranate integrato da 40mm, mitragliatrice di squadra FN-Minimi, fucili Heavy-sniping Barrett e altre stranezze tecnologiche che sembravano provenire dal futuro.
Il comandante del gruppo mercenario delle “carogne”, così si autodefinivano, era un italiano; nascosto tra delle rotaie semidivelte e pressoché invisibile a tutti, stava maneggiando il visore infrarosso integrato al mini-computer del missile Javelin. Cercava di far collimare il reticolo con il T34 russo, posizionato a non più di 600 metri da lì, in modo tale che il software potesse rilevare il calore del motore del carro armato. Al suo fianco c’era un altro graduato, croato, del gruppo ombra che osservava il T34 con un binocolo telemetrico. Usando il nome in codice del comandante, il croato disse: “DOC, ci sei, 600 metri esatti. Vedrai che botto sentiranno gli Ivan.”

“ Ok, Zagabria, proprio ora si è acceso il led verde. Adesso li arrostisco.” rispose sorridendo l'italiano DOC.

All'istante, dal tubo maligno divampò un lampo biancastro e fumoso. Poi per una frazione di secondo si vide fuoriuscire un missile lungo un metro che si innalzò nel cielo come una meteora dal moto rovesciato. Il missile seguì una traiettoria curva e iperbolica per un centinaio di metri poi, dall'alto, l'arma assoluta controcarro del XXI sec., si diresse a velocità folle contro il titanico cingolato russo.
Il T34 non aveva scampo, il missile inglese Javelin aveva rilevato la sua scia di calore e l'avrebbe seguito fino all'inferno, per poi colpirlo dall'alto, in pieno sulla torretta.
L'effetto fu devastante, molto più potente della detonazione provocata dal Panzerfaust. Nessuna fiammata né fumo. Solo un'incredibile esplosione rossa al centro, circondata da un amebico alone nero come la tenebra. Poi mille rottami che saltavano in aria in tutte le direzioni, rimbalzando ovunque.
Del potente mostro d'acciaio russo non rimaneva che piccoli frammenti semifusi del cingolato e un'area di una decina di metri quadri di asfalto liquefatto.

Gli altri due T34 cercarono di levarsi dalla linea di tiro, dirigendosi verso una strada trasversale chiamata Prinz-Albrecht-Straße, ma il loro movimento non portò a nulla. Infatti altri due missili, caricati dai servitori, si innalzarono nel cielo, per poi ricadere a una velocità iperbolica sulle torrette dei carristi sovietici, che non riuscivano nemmeno più a capire da che cosa si dovevano difendere.
In meno di 120 secondi i sovietici avevano subito un attacco alle spalle inaudito e in una modalità mai vista in tutta la seconda guerra mondiale.
Il comandante DOC parlò alla radio tattica, dotata di laringofono, dicendo: “Forza “carogne”, avanti col fritto misto.” Il fritto misto era una serie di lanci di granate da 40mm, sparate dall'M203 posizionato sotto la canna del fucile d'assalto, caricate con componenti incendiari al fosforo bianco, a frammentazione e altamente esplosive.
All'unisono, i componenti dell'unità mercenaria colpirono i fanti dell'armata rossa in modo catastrofico. Le granate aprirono veri e propri varchi tra i soldati russi che, completamente confusi, non riuscivano a capire da dove venivano colpiti e da chi.

Il panico tra le file russe toccò l'apice mentre, tra un volare di arti e busti, il capo dell'NKVD cercava di dare ordini ai suoi dicendo: “Levatevi dalla strada e infilatevi nei palazzi sfondati. Per Stalin!”
Mentre Berija proferiva verbo, almeno 80 suoi soldati giacevano al suolo a pezzi o carbonizzati. Anche i “supercomunisti” dell'NKVD erano stati abbattuti dalle schegge delle granate a frammentazione da 40mm. Le deflagrazioni e gli incendi provocati delle granate al fosforo avevano decimato la fanteria sovietica che ora pensava solo a ripararsi senza sparare più un colpo.



Mentre i 12 sopravvissuti della SS-Charlemagne si erano allontanati dal campo di fuoco per prestare soccorso ai loro due ufficiali seriamente feriti dalle raffiche dei Ppsh41 russi, il comandante DOC urlò al laringofono:”Voodù, prendi i tuoi sniper e aggira gli Ivan passando da Anhalter Straße. Guarda bene sulla mappa, vedrai che li puoi prendere sul fianco e poi pestali ben bene con il Barrett. Dammi un K se hai ricevuto.”

Il brasiliano, alias Voodù, rispose serafico:”K, Doc sarà fatto.” Ma tra sé e sé non cessava di chiedersi che senso potesse mai avere attaccare i russi nella Berlino del 20 aprile del 1945. Perché dovevano aiutare dei ragazzetti della gioventù hitleriana e un pugno di volontari mezzi morti delle SS francesi a proteggere quell'installazione? Eppure i clienti che avevano commissionato l'operazione non erano nazisti. Ma i mercenari sono pagati per compiere una missione e all'occorrenza anche per morire e non devono farsi domande. Lui stesso aveva lasciato il BOPE, il battaglione di polizia specializzato in operazioni ad alto rischio nelle favelas, proprio perchè aveva capito che la linea di demarcazione tra “buoni e cattivi” non è definita. Perciò, ormai, aveva perso tutti i suoi scrupoli: l'importante era fare il lavoro, guadagnare un sacco di soldi e tornare a Rio a fare follie. Questa era la vita del mercenario. Guadagnare e spendere. Niente di più e niente di meno.

Cinque cecchini in mimetica nera guidati da Voodù, il terzo graduato dell'unità mercenaria, iniziarono a strisciare come ombre tra le ombre di quella che era stata una bella area verde berlinese con alberi, ristoranti eleganti e giochi per bambini. Ora, la follia di Hitler aveva ridotto quel settore in una necropoli a cielo aperto.

Gli alberi erano come mozziconi di sigarette spezzate e carbonizzate, i ristoranti ridotti a collinette di macerie, in cui porte di pregiato legno giacevano distrutte su montagne di vetri e finestre rotte. Delle altalene e degli scivoli non restavano che le strutture liquefatte dal calore emanato dalle grosse bombe aeree che si erano abbattute sulla città.

Voodù e i suoi continuavano strisciare tra un cumulo di macerie e l'altro, per poi penentrare nelle grosse fenditure che solcavano i palazzi, tagliandoli longitudinalmente e rendendoli simili a gigantesche fette nere di formaggio gruviera. Entravano e uscivano dalle rovine dei caseggiati diretti verso il lato sinistro della formazione russa.

Il brasiliano era intento a consultare la mappa, quando un rumore lo allarmò. Proveniva dall’alto, probabilmente dal primo piano dello stabile in cui erano entrati. Si trattava di una serie di lamenti e urla femminili.

A un cenno del graduato l’unità iniziò a salire su ciò che restava di una scala di marmo. Silenziose come fantasmi, le cinque ombre venute da chissà “quando” videro un letto miracolosamente illeso circondato da sei soldati russi che con i pantaloni abbassati e una bottiglia di vodka in mano, decisamente ubriachi, violentavano a turno una povera donna che, ormai vinta, si dimenava debolmente.

Voodù, disgustato, decise di raffreddare i più bassi istinti della truppa.

Dopo essere strisciato nella penombra insieme ai suoi uomini, diede l’ordine e tutti attivarono i mirini laser che come sottili pennelli di luce rossa si diressero verso le nuche dei violentatori. Gli animali nemmeno si accorsero di morire, le brevi scariche calibro 5, 56 Nato, di una precisione incredibile, sparate dai Colt M4 commando avevano fatto saltare i loro crani come meloni maturi. Solo uno di essi aveva fatto in tempo a voltarsi in un patetico tentativo di cercare il suo mitra Ppsh41 che, travolto dalla sua pulsione bestiale, aveva gettato chissà dove. Quello che più colpì il brasiliano, appena prima di scaricargli una pioggia di Full metal jacket in pieno volto, fu lo sguardo sorpreso che colse nei tratti somatici mongoli del russo-asiatico. L’uomo si era chiesto certamente da dove arrivassero quelle ombre, simili a tecnologici insetti neri e dotate di armi mai viste prima. Fu l'ultimo pensiero del caporale mongolo, mentre il corpo della donna veniva innaffiato dalla materia celebrale del suo violentatore.



Intanto la soldataglia russa, all'angolo con la Prinz Albrecht, aveva trovato un buon riparo dietro la carcassa ancora abbastanza integra di uno degli ultimi aerei Focke-Wulf 190 della Luftwaffe, abbattuto probabilmente dai caccia sovietici Yaks.

Berija aveva finalmente capito da dove provenivano gli spari dei nemici misteriosi e indirizzò il fuoco di sbarramento in fondo alla Wilhelmstrasse, dove i nemici si nascondevano dietro ai vagoni dei tram. Soprattutto aveva intuito che le visioni inviategli telepaticamente dai suoi simili del futuro erano esatte. Quelle armi usate per distruggere i suoi T34 erano la conferma; nessuno degli eserciti coinvolti nel conflitto nulla di simile aveva in dotazione armi simili. In caso contrario, in quanto capo dei servizi segreti comunisti, lo avrebbe saputo.

Dunque era tutto vero. La visione iniziava ad avverarsi, il monito dei suoi fratelli era reale. L'umanità futura stava per far crollare l'impero invisibile della sua antica razza. La guerra, la vera guerra era iniziata, il teatro bellico sarebbe stato il tempo e la posta in palio il mondo presente, passato e futuro.



Il gruppo mercenario guidato dal comandante DOC stava ricevendo le attenzioni dei russi, i quali vomitavano un gran numero di proiettili sulle loro postazioni ma con poca precisione. I colpi dei loro fucili d’assalto Ppsh41 erano rapidissimi e i caricatori a tamburo da 71 cartucce si svuotavano uno dopo l'altro contro il metallo dei vagoni. Da quella distanza, il calibro, lo stesso delle loro pistole Tokarev TT33, era troppo impreciso. Molto più pericolosi erano quelli sparati dai fucili Moisin-Nagant calibro 7,62x54r o, ancor peggio, quelli dei cecchini armati con gli SVT40 con ottica. Anche se non mancava ogni tanto il cupo tuonare della mitragliatrice MG42 calibro 7,92x57mm, arma tedesca evidentemente caduta nelle mani degli Ivan.

Gli uomini di DOC partirono anche con un fuoco di interdizione con le mitragliatrici Minimi, una stupenda arma di squadre calibro 5,56 Nato dotata di nastri da 200 colpi e di una cadenza impressionante. Alcuni dei suoi avevano centrato in pieno qualche fante russo coraggioso, che lasciava inutilmente il suo riparo per lanciare delle bombe a mano, senza avanzare neanche di 10 metri.

La situazione era in stallo. I russi non potevano avanzare per via delle mitragliatrici Minimi, che li avrebbero falciati, mentre i mercenari essendo in numero mostruosamente inferiore e non potendo permettersi inutili perdite, dovevano aspettare il lavoro dei loro sniper. Attesa che non durò a lungo.



Berija e compagni stavano cercando di posizionare dietro al Foke-Wulf abbattuto un mortaio da 82mm M1937 a canna liscia, in grado di lanciare bombe altamente esplosive da 7kg a più di 1km. L’intenzione era quella di colpire, con alcuni buoni tiri a parabola, i misteriosi nemici nascosti dietro i vagoni del tram. Gli addetti al pezzo inserirono l'ordigno nel mortaio, poi si udì il classico suono sordo dell'arma, mentre il proiettile esplosivo volava con un moto parabolico per 600 metri, andando a schiantarsi contro l'angolo alto di un palazzo proprio alle spalle dei mercenari. Il gruppo, miracolato, fu sommerso letteralmente da una nuvola di calcinacci e polvere biancastra così densa da coprire quella pallida luce proveniente dal cielo plumbeo e acquoso che opprimeva la capitale del Reich millenario.



Il comandante DOC, con le orecchie ronzanti e dolenti e con la bocca impastata dai calcinacci polverizzati, urlò al laringofono della sua radio per coprire i rumori della battaglia: “Voodù, distruggimi quel mortaio maledetto o ci farai ammazzare tutti, figlio di…”

L'italiano non ebbe nemmeno bisogno di terminare la frase che i mostruosi fucili Barrett nel titanico calibro 12,7x99mm del team guidato dal brasiliano colpirono i serventi e il mortaio stesso. Il risultato fu un'ecatombe.



Posizionati sul tetto di un palazzo di sei piani ormai diroccato, i cecchini di Voodù potevano dominare sia Saarlandstrasse sia Prinz Albrecht. In fondo alla Prinz Albrecht, a non più di 400 metri dai loro fucili Barrett in grado di forare a 600 metri 25mm di acciaio, essi inquadrarono tutti e cinque gli sniper attraverso l'ottica. Attesero il primo colpo del brasiliano e poi scatenarono la devastante potenza di quei superfucili che durante le guerre balcaniche venivano chiamati “cannoni a mano”. Dal freno di bocca a forma di “T” gigante uscirono due fiammate laterali alla canna lunghe mezzo metro, poi il pistone riuscì ad ammortizzare il titanico rinculo che si scaricò sulla spalla del tiratore. Ormai il proiettile anabolizzato viaggiava con una traiettoria discendente verso il gruppo russo che proprio in quell'istante si preparava ad abbassare leggermente l'alzo del mortaio, e colpì diagonalmente la gamba del compagno Berija. Il suo arto inferiore destro si staccò di netto emettendo una nebulosa sanguigna e andò a cadere inerte a una ventina di metri di distanza.

Gli altri cecchini fecero fuoco contemporaneamente e dal tetto si sollevò un bagliore rossastro, mentre 400 metri più in basso un superproiettile colpì la canna del mortaio e un altro centrò in pieno la cassa con le bombe da 82mm del pezzo sovietico.

Poi fu luce. Pura e bianca luce che precedette, con un bagliore primordiale, un'immane esplosione di potenza tale da scuotere apparentemente la stessa formazione della materia.

Almeno una sessantina di Ivan furono ridotti a brandelli, gli intestini non si distinguevano più dagli arti tanto era stato il disfacimento dei corpi.



Da dietro ai vagoni dei tram rovesciati in fondo alla Wilhelmstrasse il comandante DOC non staccò gli occhi dal binocolo puntato sui russi e quando vide l’esplosione sussurrò: “Sei grande Voodù, continua a sparare e innaffiali di piombo. Ora avanziamo e li chiudiamo, sono topi in trappola.”

Poi, girandosi verso il camerata alla sua destra, aggiunse: “Ora tocca a noi, Zagabria. Fuoco di copertura con le Minimi e rimuoviamo il problema”.

Zagabria sorrise e pensò a quando aveva conosciuto DOC in Guyana francese, ai tempi della legione straniera, in cui erano stati forgiati, induriti nella giungla e iniziati al mestiere delle armi. Poi si erano ritrovati in molti altri luoghi sparsi per il mondo come mercenari, mal pagati e poco considerati. Attualmente, invece, erano proprietari in società con DOC e Voodù di una compagnia mercenaria chiamata “k-group”. Non era grande quanto la colossale Blakwater o la AEGIS britannica che in Iraq avevano veri e propri eserciti privati. Ma la loro medio-piccola struttura, seria, agile e soprattutto segretissima aveva strappato ottimi contratti e valide retribuzioni.

Rimosso il problema, Zagabria, già si immaginava a bordo del prossimo acquisto, una Bentley coupè rossa fiammante elaborata all'inverosimile dai preparatori di Los Angeles dove da qualche anno si era trasferito.

All'improvviso l'urlo di guerra di DOC lo riportò alla realtà: “Lunga vita alle carogne, avanti!”

Le 15 ombre in mimetica nera, miracolosamente illese, aggirarono i vagoni e iniziarono a sparare e a correre verso le postazioni russe.



Ormai la fanteria russa era ridotta all'osso, dall'alto i cecchini del brasiliano colpivano i bersagli umani sparando direttamente sui rottami dell'aereo, il quale completamente carbonizzato, non forniva nessuna resistenza contro i mostruosi proiettili calibro 12, 7x99mm del Barrett. Per i sovietici era come cercare riparo dietro un foglio di carta, a ogni colpo un soldato veniva ucciso. Per giunta in malo modo: chi perdeva una gamba, chi un braccio e chi si ritrovava con il torace spaccato in due come una mela. Un massacro. I fanti russi erano letteralmente paralizzati dal panico di essere stretti tra due fronti. Alle loro spalle i micidiali fucili dei cecchini mercenari, di fronte i diavoli in nero con armi che non cessavano di vomitare fiumi di piombo incandescente. Ovviamente la resistenza russa si stava riducendo a qualche isolata raffica di Ppsh41 diretta in modo molto impreciso verso la postazione di Voodù e soci. Nel frattempo l'attacco nemico proveniente dalla direttiva nord era debolmente contrastato dai fucili Moisin-Nagant. Questi bolt-action avevano un volume di fuoco ridicolo, se paragonati alle diaboliche mitragliatrici Minimi della Fabrique national du Belgique che in un secondo scaricavano una miriade di proiettili.

Mentre il nemico avanzava, un sergente era riuscito coraggiosamente a restare illeso tra i proiettili sparati dai Barrett, sentendo le vampate calde sfiorargli il corpo e vedendo gli effetti devastanti sui suoi commilitoni. Temerario, era riuscito anche a prendere per le ascelle il corpo del capo dell'NKVD Lavrentis Berija e a trascinarlo dietro un piccolo riparo costituito dalla colonna di granito di un sito governativo nazista con tanto di aquila e svastica. La colonna si era spezzata alla base ed era caduta a lato sulla statua equestre di un antico guerriero germanico e forniva una discreta zona di sicurezza.

Il sergente adagiò al sicuro il corpo di Berija contro un muro sbrecciato che recava in vernice nera l'ottimistica scritta “Non capitoleremo”. Poi gli parlò dolcemente: “Compagno comandante, riuscite a sentirmi?”

Il cappotto di Lavrentis Berija era tutto inzuppato di sangue, dall'arto reciso fuoriusciva un liquido nerastro che a flussi intermittenti schizzava dall'orribile amputazione, formando sul selciato un piccolo lago purpureo. Ma quello che colpì il siberiano non fu la ferita, la guerra lo aveva assuefatto, ma le pupille degli occhi di Berija. Forse era l'effetto dell'imminente decesso, ma gli occhi dell'uomo stavano assomigliando sempre più a quelli di un rettile e al contempo la pelle del viso si stava ricoprendo di squame verdastre.

Berija, anche se morente, sapeva benissimo che mantenere l'aspetto umano in quelle condizioni era impossibile, tra poco il suo corpo avrebbe assunto la vera forma rettiliana e in poco meno di due ore si sarebbe disgregato e dissolto. Loro erano diversi dagli umani, nessun rigor mortis, nessun irrigidimento del cadavere, nulla di tutto ciò. La completa disintegrazione delle sue molecole sarebbe giunta in tempi brevi, ma non così brevi da impedire al sergente siberiano di capire che il capo degli onnipotenti servizi segreti comunisti non era umano.

Raccogliendo la sua ultima scintilla vitale, Berija, fece cenno al suo soccorritore di avvicinarsi alle sue labbra e sussurrò: “Maledette scimmie parlanti, non riuscirete mai a liberarvi di noi. Schiavi siete nati e schiavi morirete.” Poi con un gesto fulmineo della mano destra sferrò un coltellata alla gola del povero soldato, che in un baleno passò dalla sorpresa alla morte. Il rettiliano prese per il bavero il sergente e lo tirò a sé in modo da occultare la sua blasfema fisionomia in una sorta di abbraccio mortale. Un qualsiasi commilitone avrebbe semplicemente visto il corpo di un sergente morto, caduto sopra a un agente dell'NKVD.

Ora con il suo volto lacertiforme nascosto per bene dalla mole del cadavere del suo soccorritore, il rettiliano avrebbe potuto aspettare la morte e la dissoluzione delle carni. Niente o quasi sarebbe rimasto di lui; e comunque, in quel mattatoio, nessuno avrebbe badato a un singolo cadavere. Forse...



Zagabria e gli altri avevano raggiunto una serie di crateri scavati nel terreno dall'artiglieria russa. Da quella posizione sparavano ininterrottamente con le Minimi e con i Colt M4, ma i mercenari vestiti di nero rimasero bloccati in quella posizione da un'MG42 tedesca finita nelle mani dei russi. Con il passare dei minuti gli Ivan avevano trovato coraggio e con quella mitragliatrice stavano colpendo duramente gli uomini del comandante DOC. Inoltre, astutamente, i fanti russi avevano preso posizione dietro a un veicolo da trasporto truppe delle Waffen-SS completamente rovesciato. Si trattava di un Hanomag sd-kfz251 tutto crivellato di colpi e con i cingoli posteriori distrutti dalla cannonata di un obice russo M1938 da 122mm. Tutto intorno al veicolo semicarbonizzato vi erano ancora i resti di una dozzina di soldati tedeschi ridotti a marionette informi e parzialmente bruciate. L’automezzo, per il volere del caso, si era rovesciato proprio al centro di Wilhelmstrasse, cioè a 80 metri dalle buche che riparavano i soldati ombra. Oltretutto la blindatura da 12mm del cingolato era ottima come caposaldo. Infatti, proprio da quel riparo, tre fanti appostati uno accanto all’altro sparavano a più non posso con l'MG42. Uno osservava con il binocolo e dirigeva le raffiche, l'altro reggeva il nastro da 250 colpi calibro 7, 92x57mm e l'ultimo premeva il grilletto tenendo l'occhio puntato sulle tacche di mira. Ai mercenari non rimaneva altro che tenere la testa bassa e stare ben incollati al terriccio umido dei crateri.



Attorno al comandante DOC e alle sue “carogne” della guerra, una pioggia di proiettili martellava pericolosamente la posizione. La richiesta radio di appoggio da parte dei cecchini di Voodù aveva avuto esito negativo. Dal tetto dell'edificio, i ragazzi del brasiliano non riuscivano a coprire quel settore di Wihlemstrasse. Potevano solo colpire la coda della formazione sovietica e infatti era quello che stavano facendo. La prima linea, invece, da quella angolazione era invisibile.

Il comandante DOC disse: “A tutta l'unità, caricare i lanciagranate con le flash bang e fare fuoco al mio Go.”

Tutti i lanciagranate M203 montati sotto la canna del fucile d'assalto Colt M4 furono caricati con granate speciali che provocano molteplici detonazioni oltre i 170 decibel dannosissime per i timpani. Al danno acustico segue poi quello visivo, perché i lampi di fortissima intensità, oltre i 2, 5 milioni di candele, neutralizzano per molti minuti la vista.

Dopo il Go del comandante, l'unità mercenaria fece fuoco. Dieci granate flash bang piovvero con moto parabolico sul cingolato rovesciato che riparava i russi armati di mitragliatrice. I fanti dell'armata rossa si ritrovarono all'istante completamente ciechi e sordi e la loro MG42 cessò immediatamente di sparare. I mercenari con calma e sicurezza si alzarono dalle buche, levarono il bossolo vuoto dall'M203 e caricarono un'altra granata da 40mm. Stavolta però altamente esplosiva. Altri 10 ordigni volarono per 80 metri circa, poi si abbatterono sugli Ivan che, certi della buona posizione, avevano invitato a ripararsi anche gli altri compagni dietro al cingolato.

La detonante pioggia di morte giunse rapida devastando i russi e facendoli letteralmente saltare in aria come piume dalla forma umana, spazzate via da un titanico vento.

Tutto sembrò fermarsi, il suono, l'aria e il tempo.



Il ronzio che seguì ferì le orecchie del comandante più delle 10 deflagrazioni.

Dal suo casco antiproiettile dotato di visiera blindata, con una voce resa roca dai fumi dell'esplosione così acri da infiammare gli alveoli polmonari e la laringe, sentenziò: “Avanti “carogne” della guerra, andiamo a finire l'opera.”

I mercenari rastrellarono la zona, finirono gli ultimi sopravvissuti a colpi di fucile d'assalto e poi si riunirono proprio ai piedi del palazzo di Prinz Albrecht, sul cui tetto gli sniper di Voodù avevano eliminato tutti i soldati sovietici. L'ingresso dello stabile semidistrutto era disseminato da un tappeto di cadaveri. In meno di 40 minuti, venti mercenari dotati di armi provenienti dal futuro avevano eliminato 250 soldati russi.

Zagabria disse all'italiano: ”DOC, siamo tutti interi, abbiamo preso qualche colpo, ma i giubbetti antiproiettili hanno fatto un lavoro fantastico.”

DOC rispose: “Anche la visiera blindata del casco ha resistito bene, guarda qui.” e indicò il lato destro della visiera tutto venato. Un colpo di Moisin-Nagant calibro 7 62x54r, aveva centrato la zona adiacente al suo zigomo destro. Ma lo speciale polimero vetroso aveva tenuto, evitandogli una morte certa.

Zagabria ridendo aggiunse: “Ti è andata bene, sarebbe stato un disastro per il tuo bel faccino.”

DOC scherzosamente lo mandò al diavolo.

Proprio in quell'istante quattro soldati della SS-Charlemagne si avvicinarono lentamente ai mercenari. Il loro aspetto era terribile, le divise erano completamente ricoperte dalla polvere biancastra dei calcinacci, ma i loro volti erano ancora più pallidi. Sembravano fantasmi magri e sofferenti. Nei loro occhi tuttavia dardeggiavano lingue di fuoco. Erano vivi e orgogliosi e il loro portamento indomito contrastava con il loro aspetto.

Un SS si presentò: “Sono il capitano Gauvin della divisione volontaria SS-Charlemagne, a nome mio e dei miei uomini, grazie.”

L'uomo a stento si reggeva in piedi. Aveva la testa fasciata alla bellemeglio, con le bende zuppe di sangue, un occhio occluso da uno straccio, una mano ridotta male e l'orgoglio intatto più che mai.

Il croato Zagabria, colpito da tanto coraggio, in un discreto tedesco si complimentò: “Capitano, i vostri uomini sono dei leoni, è stato un onore aiutarvi a difendere l'Iceberg.

Il capitano Gauvin, sorpreso che quegli strani soldati fossero a conoscenza della struttura segretissima, rispose: “Camerata, dal suo accento capisco che è croato. Ne sono felice, gli Ustashia sono grandi combattenti, ma non ho mai visto armi del genere, uniformi che non conosco, missili che volano nel cielo e polverizzano i T34 come se fossero gallette secche. Insomma, che unità siete?

Il croato improvvisò: “Capitano, siamo una unità segreta della divisione Brandeburgo. Siamo tutti volontari stranieri fedelissimi al Führer. Abbiamo ricevuto ordini di aiutarvi a difendere il sito scientifico chiamato in codice Iceberg, dove i nostri studiosi stanno testando le armi di distruzione di massa per rovesciare il conflitto. Ora che abbiamo concluso la missione dobbiamo ritirarci, di più non posso dirvi.”

Il capitano Gauvin scosse il capo annuendo: “Grazie camerati, anche noi dobbiamo rientrare. Il bunker ci attende, abbiamo feriti che necessitano di cure.” Con queste poche parole, il capitano e i suoi valorosi uomini, si avviarono verso la struttura sotterranea, dove avrebbero trovato un ricovero degno del loro coraggio.



Il comandante DOC, con un’affettuosa pacca sulla spalla dell’amico, disse: “Bravo Zagabria, il tuo tedesco è stato utilissimo, ma ora tira fuori la mappa e cerca il punto esatto di esfiltrazione.”

Il croato tirò fuori da una tasca cosciale della mimetica la carta dettagliata di quel settore di Berlino. La aprì e fece per posarla a terra quando un forte colpo di vento la spinse come una piuma 5 metri più in là, dove si trovava si trovava Voodù, il quale con uno scatto andò a recuperarla. La mappa si era incastrata sotto alla colonna di marmo franata sulla statua equestre. Voodù si inginocchiò per raccoglierla, ed esclamò: ”Per tutti gli spiriti Mpungos del Palo Mayombe, per il dio Nsambi. DOC, vieni a vedere questa stregoneria.”

Il comandante si avviò borbottando: “Cosa è che ti sconvolge la puzza dei morti? Eppure dovresti esserci abituato.”

Il brasiliano spostò il corpo del sergente morto e tirò a sé per le gambe ciò che vi era nascosto sotto. Tutti videro. Il cadavere putrescente era in avanzato stato di decomposizione e dal pesante cappotto scuro con la fascia dell'NKVD al braccio spuntavano il mostruoso volto, il collo e le mani, tutti ricoperti di squame.

“Sicuramente non è umano!! Questa è una macumba che ha imprigionato lo spirito di un defunto nel corpo di un animale. Questa è materia mia, quant'è vero che mi chiamo Voodù!!” disse con occhi spiritati il cecchino brasiliano.

“Risparmiaci le tue convinzioni da stregone . Lo sappiamo che sei in “palero”, un sacerdote, come ami definirti. Ma qui la tua porcheria non c’entra nulla. Questo schifo non è altro che un alieno. Ecco cosa è!!” Queste furono le parole del croato, secche, nette, precise e non ammettevano repliche.

Il gruppo mercenario piombò in un silenzio tombale per qualche interminabile secondo, sempre con gli occhi incollati su quell'abominio vestito da agente della temuta polizia segreta comunista.

Poi l'italiano disse: “Ragazzi, è inutile fare ipotesi che non portano a nulla. Ora, prima di partire per il nostro punto di fuga, farò qualche foto a questo mostro schifoso. Poi quando saremo tornati a casa andrò personalmente a fare quattro chiacchiere con il nostro cliente. Mi sta bene soccorrere dei nazisti di guardia a una struttura scientifica sotterranea, mi sta bene l’idea che questi scienziati si arrenderanno prossimamente agli americani contribuendo al progresso tecnologico di non so cosa. Ma questo non mi va proprio. È vero che noi mercenari siamo pagati per combattere, morire e non fare domande, ma se vogliono che non annulliamo il contratto, ci devono dire esattamente cosa combattiamo e contro chi combattiamo!!”

I componenti della compagnia militare privata K-group marciarono per 30 minuti a passo veloce attraverso l'inferno di Berlino, ormai ridotta a una gigantesca bolla di fumo che si disperdeva in un cielo plumbeo, graffiato da una una pioggia anomala che si specchiava nei bagliori degli eterni incendi. In quel panorama di morte e devastazione, le venti carogne della guerra a tassametro raggiunsero un settore a nordovest dell'area dov’erano avvenuti gli ultimi e sanguinosi scontri tra i sovietici e l'esercito ombra.

Il gruppo prese posizione al centro di quello che era stato, un tempo, un settore agreste della capitale. Tutti si strinsero in cerchio, inginocchiandosi attorno a un dispositivo piantato nel terreno devastato dai bombardamenti. Visti da lontano, potevano essere confusi con antichi druidi vestiti di nero, in un atto di adorazione a un congegno biomeccanico simile a un grosso fungo, alto 50 cm e largo 20. Si trattava di un anonimo apparecchio di colore grigiastro, un “boletus tecnologicus” in grado di trasmettere la posizione esatta all'unità di viaggio che, tramite il sistema chiamato “variable gravity lock”, poteva scansionare la gravità locale con speciali sensori e tracciare l'esatta rotta.

Forti vibrazioni scossero l'area circostante per un raggio di 10 metri e una sottile nebbia di ozono puro iniziò a incupirsi sul verdastro.

Un consistente nodo allo stomaco colpì gli uomini che in un baleno provarono la fortissima sensazione di divenire puro pensiero senza corpo. Una minuscola sferetta di luce bianca esplose a una velocità fantastica, come un sole proveniente dall'altra parte dello spazio e del tempo in una assurda corsa oltre la materia grossolana e verso quella sottile. Una strana sensazione inconscia di non avere più bocca, occhi, arti pervase gli uomini insieme alla certezza di stare in un non-tempo, in cui le immagini assumevano la consistenza onirica.

Il tutto durò meno di due secondi, poi i mercenari ricomparvero perfettamente inginocchiati e in circolo nella cupola di vetro corazzato del “differenziatore”.

La missione per i venti mastini della guerra era durata 2 ore e 27 minuti. Questo era il tempo percepito e utilizzato da queste entità biologiche, proiettate oltre la barriera spazio-tempo. Mentre per gli studiosi che avevano monitorato il viaggio dal tempo presente erano trascorsi poco più di due minuti.

Ora, i mercenari, prima di raggiungere gli alloggi e riposare, si sarebbero dovuti sottoporre a rigorose visite mediche. Gli scienziati della New Project Division dovevano verificare che nessun virus fosse passato indenne dal 20 aprile 1945 al 20 agosto del 2010, ore 04.30.

Tutta la cupola di vetro del differenziatore, il vero cuore dei viaggi spazio-temporali, in cui un cunicolo di tarlo quantico delle dimensioni di una particella sub-atomica veniva ingrandito fino a diventare un'area circolare di 10 metri di diametro, doveva essere sterilizzata al 100%. Nel giorni seguenti gli uomini del K-group si sarebbero dedicati al riposo, al relax e a rigorosissimi controlli clinici.



Sei ore prima degli eventi descritti: Berlino 20 aprile 1945, ore 00.45.



Mentre attendeva l'ingresso dei prigionieri, Victor Shauberger, in camice bianco con le mostrine da colonnello medico delle SS, osservava il nudo cemento del soffitto della struttura bunkerizzata, scavata nel sottosuolo berlinese. In quel grigio ambiente, lo studioso vide scorrere tutta la sua vita come su una pellicola. Vide la sua nascita, il 30 giugno 1885, da una famiglia austriaca di guardiaboschi, poi la prima grande guerra, l'università e infine l'incontro che gli aveva cambiato la vita. A Berlino, nel 1934, era stato convocato da Hitler, che, interessato ai suoi studi sull'energia naturale, aveva donato al suo compatriota geniale ben 100 milioni di Reichs Marck di sovvenzionamento e la possibilità di condurre gli esperimenti nel fornitissimo laboratorio di Norimberga.

Da allora quell'uomo strada ne aveva fatta tanta. Era diventato il capo del progetto ”Die Glocke”, la campana e aveva creato una squadra di scienziati talmente preparati, che in alcune tecnologie la Germania aveva superato di gran lunga gli Stati Uniti.

Studiosi come Werner Heisenberg, Erwin Schrodinger e soprattutto Max Planck, il famoso padre della quantistica, ora erano tutti sotto la supervisione del dottor Shauberger. La sua squadra si era discostata dalla relatività di Albert Einstein, anche se non di molto visto che la teoria dei quanti non era incompatibile con le tesi einsteniane. Era senz’altro una strada diversa da quella caldeggiata dagli studiosi americani, un lavoro decisamente più difficile e pionieristico. Forse anche più tortuoso, ma senz'altro all'avanguardia.

Gli scienziati nazisti in pochi anni avevano fatto passi da giganti sulle applicazioni pratiche dei modelli quantistici, ma in cuor loro sapevano bene che i 5 mesi promessi al Führer erano una colossale bugia.

Il dottor Shauberger fu interrotto dalla voce roca di un sergente delle SS-Totenkopf: ”Dottore, i prigionieri juden sono arrivati e la attendendono al centro dei magneti.”

Una decina di ebrei vennero spintonati con i calci del fucile Ghewer-43 nella sala dei magneti posta nel piano sotterraneo più basso della struttura chiamata l'Iceberg. I poveretti, vestiti con il classico pigiama dei detenuti del campo di concentramento di Mauthausen, erano tutti ebrei rastrellati in Cecoslovacchia, Ungheria e Russia. Tutti avevano in comune di essere pratici con le macchine fotografiche e di avere un discreto quoziente di intelligenza, e in quel preciso momento anche di nutrire un grande timore nei confronti di quei quattro monoliti scuri dal peso di 4 tonnellate ciascuno che, posizionati a croce, incombevano su di loro come divinità pagane assetate di sangue.

Il dott. Victor Schauberger, seguito dagli altri tre suoi collaboratori, si avvicinò al cerchio di 10 metri di diametro disegnato con vernice bianca che racchiudeva i dieci Juden dicendo con voce calma e controllata: “Prigionieri, se ottempererete con spirito di abnegazione e farete ciò che vi è stato detto, le vostre condizioni di vita miglioreranno di molto. Non tornerete più nei campi di concentramento, riceverete abbondante vitto e rimarrete qui a Berlino fino al termine del conflitto, dopo di che verrete consegnati alla croce rossa. Infine, se a qualcuno di voi venisse in mente di fuggire, deve sapere che poco fa vi è stata inserita nello stomaco una capsula contenente una tossina mortale che potrà essere neutralizzata solo con un nostro antidoto. Questo è tutto.”

Ai detenuti era stato detto che il III Reich doveva testare un nuovo sistema di trasporto e perciò per nessun motivo si sarebbero dovuti muovere dal punto di arrivo, potevano solamente scattare fotografie. Poi sarebbero stati recuperati e graziati. In realtà, a esperimento ultimato, la tossina non sarebbe stata neutralizzata, essi sarebbero stati interrogati sull'esperienza e poi fucilati. Nessun testimone scomodo poteva sopravvivere.

“Tutto pronto, elettromagneti e supporti a slitta regolari.” disse Max Plack.

I quattro elettromagneti, di dimensioni titaniche, si avvicinarono tra loro spostandosi su rotaie, la loro forma a “U” assomigliava a enormi fauci di un mitico animale biomeccanico.

“La distanza tra i magneti e tra i poli alternati dev’essere precisissima, altrimenti non possiamo creare il flusso tondo rotatorio.” sentenziò il dottor Schroedinger.

Gli elettromagneti scivolarono ancora uno verso l'altro, il motore delle rotaie emetteva un forte ronzio, mentre gli Juden stazionavano tutti stretti uno all'altro e terrorizzati da quello strano marchingegno.

“Azionare la campana” disse il dottor Heisenberg.

Gli assistenti di laboratorio fecero scorrere una serie di enormi catene mosse da argani elettrici che trattenevano il moto discendente di un gigantesco cappello d’acciaio e cemento. Il diametro era di 15 metri e rastremava verso l'alto, come una campana, per 28 metri.

Sotto alla blasfema campana, padrona dello spazio e del tempo, stavano i prigionieri che ormai, ancor più che terrorizzati, erano letteralmente paralizzati.

I quattro studiosi impartirono altri ordini agli assistenti attraverso altoparlanti. Il tono gracchiante dei loro gelidi comandi echeggiava nella vasta area open space, sita alla profondità di 14 metri.

Nella titanica campana c’era un inserto rettangolare di 4 metri per 2. Fatto di spessissimo vetro antisfondamento, veniva utilizzato per monitorare visivamente le cavie umane e l'andamento dell'esperimento all'interno del portale dimensionale.

Gli scienziati nazisti si avvicinarono al vetro. L’emozione finalmente traspariva dai loro occhi, e in particolare del dottor Shauberger. Ritrovato il necessario distacco, l’uomo alzò la mano destra per poi abbassarla di colpo. Quello era il segnale agli addetti al pannello di controllo dell'unità di viaggio.

Il risultato fu immediato, fortissime vibrazioni scossero il laboratorio fin nelle fondamenta, una forza impressionante, anomala e primordiale attanagliò il tutto. Uomini, macchinari, cavi elettrici, quadri di comando, argani, tutto sembrò per un attimo sgretolarsi. Poi il silenzio.

Un annullamento assoluto del suono avviluppò il laboratorio, mentre una nebbia quantica riempiva la campana, impedendo agli scienziati di vedere i prigionieri. La nebbia biancastra assunse una tonalità verdastra e itterica, rivelando così agli addetti ai lavori che l'allineamento delle linee di flusso si era verificato e aveva creato un campo rotante unificato, detto “Flusso di etere rotante”.

A questo punto, il dottor Victor Shauberger urlò concitato al microfono della sua postazione: “Impostate immediatamente la frequenza di risonanza o quegli ebrei chissà dove finiscono!!”

Victor sapeva bene che regolando in modo corretto la frequenza di risonanza si sarebbe potuto collegare il “contenuto” della campana a una precisa posizione dello spazio e del tempo. Per quanto essere riusciti a piegare la gravità fosse già un risultato importantissimo, la difficoltà maggiore consisteva nel calcolare la rotta giusta per spedire i prigionieri in un preciso punto spazio-temporale. L’obiettivo di questa missione era la città nemica di New York nel giorno 21 dicembre dell'anno 1986. Qui, i prigionieri avrebbero avuto modo di immortalare l'avvenuto balzo dimensionale mediante fotografie.

Il luogo era stato deciso dai servizi segreti del partito nazista, L'SD-Sicherheitsdienst, in quanto alcune spie infiltrate negli Stati Uniti erano certe che gli americani sarebbero stati i primi a fabbricare ordigni atomici. La data, invece, era stata estrapolata da una squadra di astrologi e numerologi tanto cari al ReichFührer, Heinrich Himmler. Puri millantatori che lo scienziato austriaco detestava. Così come, in cuor suo, detestava sia l'antisemitismo, sia lo stesso Himmler, da molti considerato peggiore di Hitler. Un vero mostro di crudeltà che nel 1943 aveva posto il dottor Shauberger di fronte a un’alternativa drastica: dirigere un gruppo di tecnici e fisici e dedicarsi all'esperimento chiamato “Die Glocke”, o essere impiccato insieme a suo figlio Walter.

Ciò che più turbava lo studioso erano le penose condizioni dei prigionieri che venivano utilizzati come cavie umane, gli Juden sempre disposti a testare ogni nuova tecnologia nazista nella speranza di migliorare di un poco la loro condizione. Non li guardava con gli occhi del colonnello medico delle SS che suo malgrado era obbligato a essere, ma con quelli di un essere umano. Aveva visto migliaia di Juden lavorare fino alla morte nel campo di lavoro di Dora dove venivano costruite le V2, o diventare materiale umano sacrificabile da utilizzare sui velivoli non convenzionali ad alta quota.

Ora tutto il gigantesco laboratorio era piombato nel silenzio della trepidazione. Si trattava solo di aspettare due minuti, corrispondenti alle due ore di spazio-tempo che i detenuti avevano a disposizione per scattare le fotografie e memorizzare più dettagli possibili sul paesaggio, senza muoversi dal punto di arrivo. Poi sarebbero stati recuperati. Bisognava attendere solo 120 secondi.

Max Planck interruppe l'attesa dicendo: “Victor, cosa ne pensi, avranno raggiunto il luogo e il tempo preciso?? Sempre che i detenuti sopravvivano al viaggio e sempre che riusciremo a recuperarli. Troppe variabili. Temo qualche imprevisto.”

Victor Schauberger, si voltò verso il collega e disse con aria triste: “Vedi caro Max, a me del Führer non importa nulla e ancor meno di Himmler e di questa folle guerra. Però, sai bene che noi scienziati di questo progetto, dobbiamo necessariamente portare questi pazzi nel futuro e sperare che gli agenti segreti dell'SD possano andare nel 1986 e tornare con la tecnologia atomica necessaria a rovesciare il conflitto. Altrimenti anche noi diventeremo solo inutili fardelli del regime in attesa del plotone di esecuzione. Perciò dobbiamo testare questo portale dimensionale e renderlo sicuro ed efficiente. Non c'è altro da fare!!”

“Veramente, si potrebbe fare anche altro.” intervenne Erwin Schrodinger, uno dei più grandi matematici viventi.

“Comunque vada l'esperimento, potremmo fuggire dall'Iceberg e arrenderci agli americani. L'OSS, i servizi segreti USA, non aspettano altro che accogliere menti eccellenti come le nostre. Uno stipendio adeguato e la cittadinanza americana non sono cose impossibili; del resto, la paura del comunismo è elevatissima tra gli Alleati. Hanno bisogno di noi!!”

Victor Shauberger, preoccupato, rispose: “Erwin, nelle tue parole vi è sicuramente la verità, anche noi altri non ne possiamo più di lavorare con il fucile puntato alla testa, ma stai molto attento a fare certi discorsi. In Germania, anche i muri anno le orecchie.”

Una sirena rossa lampeggiò emettendo un suono breve e una luce intermittente. Era il segnale del via libera: gli studiosi potevano spostarsi dall'unità di viaggio al pannello di controllo. Tutto era pronto per il rientro, stessi comandi e stessa procedura. E la speranza di avere portato l'uomo oltre l'abisso del tempo, anche se per un fine per nulla nobile. L'umanità aveva ampiamente esplorato le tre dimensioni dello spazio: la lunghezza, la larghezza e l'altezza. Ma mai nessun essere umano aveva oltrepassato la quarta dimensione, il tempo.

Victor Schauberger e gli altri tre suoi collaboratori sarebbero potuto essere i pionieri del viaggio nel tempo.

I “corridori del tempo”.





Città di Quebec, Nuova Francia. 13 settembre 1759.



Dopo quasi tre mesi di assedio, la capitale della “Nouvelle France” continuava a rimanere in mano ai francesi, nonostante che la situazione della guarnigione si fosse fatta disperata. Moltissimi edifici erano stati distrutti dalle batterie britanniche, posizionate sulla riva opposta del ST. Lawrence River. L'abitato era in rovina, la maggioranza delle famiglie costretta ad accamparsi per le strade fangose. A causa dell'assoluta mancanza di viveri, tutti si affannavano a catturare gatti e topi.

Gli ospedali erano stracolmi di soldati e civili feriti, così come erano rigurgitanti di profughi le chiese della città non ancora sventrate dagli incessanti bombardamenti della terribile flotta inglese comandata dall'ammiraglio Holmes, che agiva indisturbato lungo tutto il fiume San Lorenzo.

Anche sul fronte terrestre, la situazione dei difensori della città di Quebec non era migliore. Il generale Townshend aveva completato l'accerchiamento della capitale isolandola dal resto della Nouvelle France. Quebec, accoglieva 3800 civili perlopiù feriti, affamati e terrorizzati dai cannoneggiamenti. Mentre la guarnigione della fortezza contava su 2200 soldati regolari dell'esercito e della marina francese, più un manipolo di indiani ottawa, uroni e abenaki. Tutte queste tribù erano accomunate dall'odio verso gli inglesi e verso i loro sanguinari alleati irochesi. Le munizioni e la polvere da sparo scarseggiavano, così come i viveri, ridotti a mezze razioni; non rimaneva altro che fare economia assoluta di tutto. Ma sebbene Quebec fosse duramente provata, disponeva ancora di solide mura e motivati miliziani canadesi che conoscevano benissimo il territorio e sapevano come colpire gli inglesi dietro le linee nemiche.

Quella guerra, iniziata nel 1759 tra Francia e Inghilterra, fu combattuta con inaudita ferocia e con tattiche completamente nuove. In palio vi era la sopravvivenza dell’impero coloniale francese in America che stava per essere fagocitato dalla superpotenza britannica. Una superpotenza bellica che si incarnava nella supremazia dei mari e che però, quella mattina del 13 settembre 1759, verso le ore 9, secondo le tattiche del generale francese Montcalm, avrebbe subito un duro colpo d'arresto. Per la prima volta, dopo tre mesi di assedio, lo stratega transalpino aveva deciso di abbandonare la sua abituale prudenza per gettarsi in uno scontro frontale contro le famigerate giubbe rosse inglesi. Montcalm stava radunando l'esercito al centro della piazza della fortezza e presto sarebbe uscito da Quebec alla testa di 1500 soldati franco-canadesi, mentre non troppo distante, nella brughiera fuori alle mura, numerose file di fucilieri del 94esimo Royal Welsh Volunter lo attendevano immobili e accosciati.

Le macchie di colore blu e bianco dell'esercito e dei fanti della marina francese si ingrossavano a vista d'occhio, così come quelle marroni della milizia volontaria canadese. Sparsi tra i reparti si radunavano manipoli di indiani a torso nudo delle tribù fedeli a Parigi.

Tutto era pronto per rompere l'assedio. Il generale Louis Joseph de Montcalm iniziò a pensare a Quebec prima della guerra, bellissima con la sua forma ad anfiteatro, le sue strade tortuose ma ben pulite e lastricate, il lussuoso palazzo del governatore della colonia, la cattedrale e la splendida l'intendenza. Una bella città ordinata, abitata da gente laboriosa che viveva in uno stato di moderato benessere e dove le donne, vivaci ed eleganti, di gran lunga superano in numero gli uomini.

Ora però toccava a lui, soldato fino al midollo, ferito cinque volte in battaglia e nominato nel marzo del 1756, da Luigi XV re di Francia, comandante in capo delle truppe della Nouvelle France. Era un uomo di piccola statura, dal viso granitico e dagli occhi duri, amato e rispettato dai suoi sottoposti.

Dal suo cavallo nero, diresse la manovra e ordinò alla truppa di uscire dalla porta San Louis e la truppa, stendardi al vento e tamburini al seguito, si diresse all'esterno delle mura cittadine. A un chilometro da lì, era appostato il temuto esercito inglese.

Ora le distanze tra i due schieramenti si erano notevolmente ridotte. Le giubbe rosse, affiancate dai feroci irochesi, erano ferme e schierate in tre linee foltissime. Di fronte, a non più di 600 metri, il fiero esercito francese, affamato e provato ma indomito, si schierò, a comporre un lungo rettangolo. In mezzo vi erano i reggimenti Guienne, Languedoc, Roussilion. Il lato destro era protetto dai miliziani canadesi e quello sinistro era affidato agli alleati indiani.

Tra i due schieramenti, a nordest di quella terra di nessuno, vi era una vasta sterpaglia. Qui dieci Juden, nascosti tra il fogliame, con indosso il pigiama del campo di concentramento di Mauthausen, scattavano fotografie.

Il generale Montcalm, in sella al suo cavallo nero e con la bandiera gigliata che garriva al vento nella mano sinistra, urlò: “Baionetta in canna, caricare le tre linee centrali!!”

I fanti francesi, carichi di odio verso un nemico così altezzoso e potente, iniziarono la carica con i fucili in pugno gridando a squarciagola: “Vive la France!!” Sprezzanti della propria vita e pieni di spirito di abnegazione, si gettarono contro lo schieramento inglese, forte di 2000 soldati perfettamente equipaggiati e riposati.

Dal lato opposto, anche il generale inglese Townshend ordinò l'attacco alla baionetta. I due schieramenti non volevano solo vincere, volevano annientarsi. A questo scopo il generale a posizionare in prima linea i reggimenti più sanguinari, come il 60esimo Royal American e il 77esimo Montgomery's Highlanders, rinforzati a i loro fianchi dalle unità di irochesi.



Al centro della brughiera contesa dai due eserciti, i prigionieri ebrei continuarono a scattare fotografie. Ridotti ad automi privi della volontà dopo anni di angherie, non badarono nemmeno a spostarsi e finirono schiacciati da quella che sarebbe diventata la più importante battaglia della guerra dei sette anni.

Era durata poco più di un ora, un’ora di spari, colpi di baionetta, sangue e agonia che avevano trasformato la brughiera in un immenso tappeto di cadaveri e armi abbandonate.

Nulla aveva distolto i miserabili dal loro compito. Fino all’ultimo avevano continuato a scattare fotografie. Poi questi emblemi viventi di coraggio e disperazione vennero abbattuti dalle palle sparate da fucili ad avancarica “Brown Bess”. Forse, una morte così rapida fu per loro una liberazione.

Morirono senza che nessuno si fosse accorto di loro, senza che nessuno avesse visto gli strani congegni che tenevano tra le mani.

Quella era la guerra. Il resto non contava.





Berlino-20 aprile 1945, ore 01.15. Laboratorio sotterraneo “Iceberg”.



La campana iniziò a vibrare violentemente, così come tutta la struttura sotterranea, mentre la scura nebbia quantica che avvolgeva il contenuto dell'immenso coperchio diventava lattiginosa. Le gigantesche catene presero a scorrere verso l'alto, sempre più in alto, sino a fermarsi sull’altissimo soffitto del laboratorio. Gli scienziati si avvicinarono e scorsero ciò che mai avrebbero voluto vedere: i prigionieri ebrei erano seppelliti da una montagna di cadaveri. Molti indossavano le classiche giubbe rosse dell'esercito inglese del XIII secolo, altri portavano i colori bianchi e azzurri della monarchia gigliata di Francia. Tutti indistintamente recavano grossi fori di proiettili e profonde ferite da baionette che squarciavano le uniformi in profondità rivelandone le carni offese.

Nel cerchio bianco disegnato sul pavimento, vi erano anche molte armi. Un groviglio di combattenti morti e fucili a pietra focaia sommergeva le cavie umane, anch'esse mortalmente ferite dai pallettoni.

Il primo a interrompere il glaciale silenzio fu Shauberger: “Il contenuto della campana parla da solo. Ciò che abbiamo riportato nel tempo presente lo abbiamo sotto gli occhi: le armi, le divise, gli stendardi e le fiaschette di polvere nera dimostrano che i prigionieri hanno raggiunto la seconda metà del 1700. Gli Juden sono finiti in un conflitto anglo-francese ai tempi in cui si combatteva con armi ad avancarica. Altro che 1986, altro che ordigni atomici. Finiremo tutti fucilati, ecco quale sarà la nostra sorte!”

Il tono funebre del responsabile del progetto fu spezzato dal premio Nobel per la fisica 1918, il dottor Max Planck: “Non essere così negativo Victor. Siamo giunti dove nessun studioso era mai arrivato, abbiamo inviato 10 crononauti oltre la barriera del tempo e li abbiamo recuperati. Sono morti, ma non per colpa nostra o per i vortici spazio-temporali, bensì per un'avversa fatalità. Ritieni tutto questo un fallimento?? Ti rendi conto che abbiamo piegato la gravità, abbiamo curvato lo spazio tridimensionale come fosse un banale pezzo di carta, abbiamo reso reale un teorico cunicolo di tarlo quantico facendo passare attraverso la sua gola, avanti e indietro, dieci ebrei? Ti lamenti?”

Ora Victor Schauberger passò da tono triste a quello infuriato: “Non sono io a lamentarmi, sarà quel pazzo di Hitler! Prova a spiegare a quel fanatico che invece di preparare il viaggio a quegli stronzi dell'SD per il 1986 lo abbiamo preparato per il 1700. Cosa credi che ci dirà il “baffetto”? Che al posto della bomba atomica si accontenterà dei moschetti a pietra focaia delle giubbe rosse?? Ci metterà tutti al muro, altro che cunicolo di tarlo quantico!”

Max Planck, con sguardo basso e un leggero tremore al labbro, rispose: “Purtroppo hai ragione, non siamo in grado di applicare la parte più difficile del viaggio nel tempo e forse non lo saremo nemmeno tra cinquant’anni. Tracciare una rotta esatta dall'unità di viaggio è attualmente impossibile, ci manca la tecnologia. Senza una tecnologia che scansioni la gravità locale e trovi un punto di arrivo corrispondente, finiremo sempre per sbagliare luogo e tempo. Non abbiamo speranze, finiremo fucilati come traditori della patria.”

Su tutta l'equipe scientifica calò un velo di morte, simile a quello che si percepisce nei luoghi dove vengono tenute le esecuzioni.

Oltre a ciò, si aggiunse la rabbia: anni e anni di sforzi sarebbero naufragati contro il plotone di esecuzione, dati e dati utilissimi al genere umano sarebbero arsi sui roghi della follia.

Fu Schrodinger a trovare una soluzione: “Non è ancora finita. Diremo a Hitler che l'esperimento è stato un successo: gli diremo che tra cinque mesi il Terzo Reich avrà l'arma più potente che la civiltà umana abbia mai visto. Gli agenti dell'SD torneranno dal 1986 con l'atomica e il nazismo si estenderà sui cinque continenti. Questo è ciò che il Führer si vuole sentire dire ed è ciò che noi gli diremo. Grazie a questa menzogna, guadagneremo tempo e, come vi ho accennato, le mie conoscenze nei servizi segreti statunitensi organizzeranno la nostra fuga. State tranquilli, non ci fucilerà nessuno. In meno di 24 ore vi porterò fuori Berlino e ci consegneremo agli americani. Loro sono il futuro, nel nuovo ordine mondiale non vi sarà mai più spazio per il nazismo. Hitler, sei finito!!!!”


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CAPITOLO 2: La confraternita babilonese

Londra, anno 2088, Regno anglo-rettiliano.




CAPITOLO 2: La confraternita babilonese

Londra, anno 2088, Regno anglo-rettiliano.



Oggi è l'anniversario del trentesimo anno di regno di sua maestà Nagas II, re dei re e comandante supremo del regno anglo-rettiliano dei protettorati di California, Svizzera e Nuovo Messico. Questa celebrazione non vuole nascondere la drammatica realtà che il pianeta Terra sta vivendo da trent'anni, bensì ricordare il giorno in cui l'antico mondo crollò e noi rettiliani perdemmo la capacità di mutare forma.

Questo nefasto evento costrinse noi, membri dell'antica razza dominante, a combattere di strada in strada, di città in città alla ricerca di un rifugio in un mondo in fiamme, perché non potevamo più assumere sembianze umane. Le scimmie parlanti salvatesi dalla psico-peste ci attaccarono mentre il nostro mondo si sgretolava. La società da noi sapientemente creata stava morendo; gli umani avevano scoperto che da millenni erano guidati, a loro insaputa, dalla nostra antica razza.

Ma la verità è che da sole le scimmie parlanti non sarebbero riuscite a raggiungere nemmeno la civiltà della pietra! Quegli ingrati, in cambio di tutta l'evoluzione che gli abbiamo reso possibile, dovevano solo continuare a lasciarsi guidare e rimanere ciò che erano: la nostra manodopera, le nostre bestie da soma. La nostra razza non era mossa da cattive intenzioni, voleva solo sfruttare gli umani, non certo annientarli.

Ma ci fu l'incidente, e tutto finì. Era il 20 aprile del 2058. Voi soldati coraggiosi del grande re Nagas II sapete tutto ciò e mai dimenticherete di inchinarvi al cospetto del sovrano che riuscì a salvarci.

Eravamo in pochi contro tanti, ma egli ci insegnò a combattere gli umani a viso aperto e senza mutare forma, e ci mostrò che non dovevamo temerli e, anzi, potevamo batterli. Ora guardatevi, guerrieri! Grazie al vostro eroismo possediamo Londra, capitale del regno anglo-rettiliano e i protettorati di oltremare.

Oggi, mentre i nostri fratelli godranno della pubblica apparizione del nostro sovrano, noi militari del Reptilian-Army presteremo servizio di guardia lungo le mura difensive della città.

Desidero ringraziarvi ed estendere la mia ammirazione ai nostri ausiliari dell'esercito della confraternita babilonese.

Rompete le righe!!”

Il generale di corpo d'armata Ofhion, congedati i soldati, riformulò il discorso, omettendo alcuni punti che avrebbero potuto offendere i militari della confraternita babilonese, tutti umani. Dopo il disastro che aveva annientato i tre quarti della popolazione mondiale, essi avevano preferito arruolarsi nelle file rettiliane pur di sfuggire alla fame che attanagliava mortalmente le città ridotte in necropoli. Avevano preferito rinnegare la propria specie e diventare dei traditori, ma tutto era preferibile al dormire ogni notte come bestie tra i palazzi sventrati o scappare continuamente da un posto all'altro per sfuggire alle bande di razziatori.

Al contrario, i graduati erano tutti figli dei dirigenti della confraternita babilonese che al momento del disastro lavoravano già, in gran segreto, per i rettiliani.

Il generale Ofhion, come tutti i rettiliani, era molto intelligente e parlava abbastanza bene l'inglese, anche se la struttura morfologica della sua bocca che gli impediva di pronunciare correttamente certe parole. La sua statura era nella media per la sua razza e superava di poco i due metri, il suo corpo squamoso era avvolto in un’attillatissima tuta di spandex di colore verde scuro. Il suo alto grado era evidenziato dalle ampie e arzigogolate decorazioni color oro poste lungo le maniche, fino ai polsi. Le estremità, corrispondenti a mani e piedi umani non erano coperte dall’uniforme. Le quattro dita della mano destra erano appoggiate sulla fondina della pistola, portata sul giubbetto antiproiettile, mentre la sinistra impugnava una radio tattica. Accanto a lui, vi erano quattro soldati rettiliani in completo assetto da guerra: fucili d'assalto M16, pistola automatica calibro 45 e svariate bombe ad ananas. Tutto l'armamento era rigorosamente fabbricato da schiavi umani nel protettorato di California.

Il drappello, composto da 150 militari del Reptilian-Army, salì rapido su di un convoglio di camion da trasporto truppe, anch'essi costruiti oltreoceano. Gli ausiliari umani, però, facevano eccezione perché erano sottoposti a restrizioni ed erano perciò costretti a muoversi a cavallo. Al loro posto solo piste di terra battuta che attraversavano il settore della capitale protetto da un alto muro di cemento armato. Al di là e al di qua di tale opera, si potevano vedere i resti della Londra antica, gli alti palazzi ormai in rovina, il Tower Bridge completamente diroccato a causa di un pilota dell’aviazione militare britannica che, in preda alla follia, quel nefasto giorno centrò in pieno il ponte con due missili Hellfire. Tutto l'abitato e le strutture di metallo furono erosi da decine di assalti e dalle intemperie. Inoltre quel maledetto 20 aprile del 2058 l’epidemia di psicopeste attaccò inesorabilmente gli emisferi celebrali dei londinesi e la folla scatenò un'ondata di follia di proporzioni bibliche che travolse l'intera città.

La medesima epidemia si estese a tutto il mondo: in alcune aree colpì il 90% della popolazione, in altre la percentuale non superò il 30%, ma il denominatore comune fu identico in ogni luogo e identici furono gli effetti: la follia soppresse la società tecnologica del XXI secolo, spalancando di fatto la porta alla barbarie.

Gregory Ford aveva quindici anni quel giorno. Era una mattina soleggiata, quando all'improvviso, prima di recarsi a scuola, udì urla disumane provenire dalla strada.

A cosa stai pensando Gregory, ti vedo triste.” gli chiese il sergente Henry Castle dell'esercito della confraternita babilonese.

Il maggiore Gregory Ford parve abbandonare con piacere il suo silenzioso pensiero e rispose con una piccola bugia: “Stavo pensando ai nostri giubbetti antiproiettile prodotti nel protettorato di Lugano, sono veramente ottimi.”

Sì, so praticamente tutto sui cosiddetti “ultima chance”. Siamo, o meglio, i rettiliani sono riusciti a recuperare a Los Angeles un progetto del 1966, sepolto sotto le macerie del museo militare. Poi gli studiosi di retroingegneria lo hanno replicato in Svizzera. Ma tu non pensavi a questo vero?”

Mentre cavalcava alla testa dei suoi 380 soldati umani della cavalleria ausiliaria al servizio del re rettiliano Nagas II, il maggiore Ford controllò il suo M16 infilato nella fondina della sella, poi rispose serio: “Lo sai Henry, per me è diverso. Io non sono nato nel regno Anglo-rettiliano, io vivevo nella Londra del “precollasso”. Non mi abituerò mai completamente a questo. Quel giorno infernale avevo quindici anni e il mio mondo morì per sempre. Le case di Regent Street erano incendiate, gli uomini si uccidevano l’un l’altro a morsi. Vidi poliziotti impazziti sparare ai passanti e poi aprire il fuoco contro i loro stessi colleghi, vidi onesti lavoratori e placide casalinghe trasformati in belve sanguinarie che usavano la loro auto a mo’ di falciatrice per uccidere tutti i passanti che incrociavano. In poco più di un ora, nel mondo perirono 20 milioni di persone.

La stessa Londra bruciò per mesi: pompieri impazziti, ospedali distrutti, aeroporti divorati dal fuoco provocato da piloti folli che, invece di decollare, deliberatamente si schiantavano contro altri aerei fermi sulle piste. Anche il cervello dei militari fu divorato dalla pazzia. Alcuni piloti da caccia bombardarono la città. Uno di questi si scagliò contro la torre del Big Ben, dove ancora giace ancora.

Sono cose che tu non puoi neanche immaginare.”

Il sergente Henry, che considerava il maggiore Ford quasi un padre, aggiunse: ”Gregory, guarda il lato positivo. Ti sei salvato dalla catastrofe, sei riuscito a sopravvivere tre anni tra i selvaggi che vivono fuori dalle mura di Londra. Sei anche riuscito a entrare nell'esercito della confraternita babilonese, cosa non da poco per quelli della tu condizione.

Al contrario, per me, che sono figlio di un dirigente della confraternita, entrare nell'esercito a 18 anni compiuti è stato scontato. Noi abbiamo da sempre lavorato per i rettiliani, quindi il passaggio diviene automatico. Mentre per te è stato un evento fortunato, dato che dei molti giovani selvaggi che si presentano ogni anno sotto le mura per essere arruolati, ne vengono selezionati meno del 10%. Gli altri non utilizzeranno mai un bagno pubblico, non disporranno di un cubicolo per dormire e non usufruiranno mai di tutte le altre comodità che noi abitanti del regno anglo-rettiliano diamo per scontato. In fondo, tutti gli umani che lavorano per i rettiliani hanno cibo, acqua delle fonti pubbliche, lavatoi e un servizio di ordine pubblico garantito dalla polizia.

Non dirmi che ti trovavi meglio tra i selvaggi, costretto a vivere con la paura quotidiana di essere ucciso dai razziatori? Dunque, non dimenticare che tu sei stato il primo ex selvaggio a diventare maggiore dell'esercito e a conseguire sul campo di battaglia molteplici medaglie al valore tra cui una Reptilian-cross.”

Vedi Henry, so benissimo di essere stato fortunato, ma devo anche ringraziare mio padre che, essendo proprietario di un'armeria vicino a Piccadilly, mi ha insegnato tutto sui fucili e sulle pistole, senza omettere le più accurate tecniche di riparazione e ottimizzazione. Infatti ero destinato a diventare un abile armaiolo come lui, ma la catastrofe mi ha portato via tutto, compresi mia madre e mio padre.

A 15 anni vagavo disperato per la città, che sembrava una necropoli, cercando di sopravvivere come un cane randagio tra costruzioni contorte dagli incendi e le tubature fognarie divelte che vomitavano fluidi necrotici e vapori miasmatici per le strade costellate da cadaveri gonfi. Paludi infette e acquitrini marci, insieme alla vegetazione, già si contendevano la città morta.

In quei luoghi ho vissuto tre anni, mangiando solo gatti e topi, fuggendo costantemente dalle bande di delinquenti, che subito avevano approfittato della caduta della società civile per depredare e seminare morte ovunque. Molte donne e molti uomini furono violentati e uccisi da questa marmaglia. Alcuni furono anche mangiati. In quegli anni il cannibalismo era la regola e perfino oggi sopravvive fuori dalla muraglia di Londra.

Un giorno scorsi un gruppo di rettiliani. Era la seconda volta che incappavo in quegli strani esseri dal giorno del disastro, quando a frotte fuggivano dagli umani che li volevano linciare accusandoli di avere provocato la psico-peste. La loro razza, al contrario della nostra, era immune alla pazzia, ma la catastrofe aveva inibito loro la capacità di mutare forma, caratteristica che da millenni essi utilizzavano per vivere a fianco degli umani senza farsi scoprire.

Distinsi chiaramente alcuni membri di razza umana intenti a lavorare per i rettiliani alla costruzione di alte mura. Seppi in seguito, a lavori ultimati, che il bastione aveva raggiunto i 140 metri di altezza per un'estensione di 58 chilometri. La curiosità mi spinse a seguire, a debita distanza, il percorso serpeggiante della muraglia attraverso quella che un tempo era stata un'area abitata da migliaia di felici londinesi. Notai che a un certo punto, il possente muro tagliava i resti della famosa torre di Londra, similmente a un gioco a incastro dalle regole maligne. Proprio in quel punto mi fermai a osservare migliaia di schiavi umani in catene lavorare e lottare contro gelide piogge e venti violentissimi, per costruire i contrafforti della muraglia che, simili ad artigli biomeccanici, si conficcavano nell'impervio terreno.

Capii immediatamente tutto del nuovo mondo. Sarei potuto restare un selvaggio sporco, affamato e vestito di stracci, o sarei potuto diventare uno schiavo condannato a lavorare fino alla morte. Ma avevo notato che, oltre i rettiliani che si muovevano come fossero i padroni, c’erano anche gruppetti di umani armati, ben nutriti e ben vestiti, che sorvegliavano gli schiavi e il cantiere da possibili incursioni piratesche delle bande di razziatori. Così presi coraggio, mi avvicinai, facendo bene attenzione a mostrare le mie intenzioni pacifiche e dissi loro delle mie conoscenze in campo armigero. Poco dopo mi diedero da aggiustare una leva hold open di una semiautomatica CZ 85 calibro 9mm in dotazione a un militare della confraternita babilonese. Fu un successo e fui arruolato.

In seguito mi distinsi in numerosi scontri a fuoco contro i razziatori e in svariate battaglie contro il potente esercito di Nova Urbe, tra cui la famosa battaglia di Londra dell'inverno del 2085, in cui ci dovemmo difendere da un'invasione senza precedenti. Respingemmo il contingente di Nova Urbe oltremare e il mio eroismo non passò inosservato agli occhi del generale rettiliano Ofhion che mi promosse con il grado di maggiore.

Sarei un bugiardo se ti negassi che oggi la mia vita può essere paragonata a un sogno divenuto realtà, ma tu non puoi sapere com’era bella Londra e la Terra intera prima che la psico-peste causata dai rettili rovinasse tutto.”

Gregory, non siamo affatto sicuri di questo. E in ogni caso, se anche l'evento anomalo è stato provocato da loro, non fu certamente intenzionale. Anche i rettiliani sono stati danneggiati dal disastro. Ciò che volevano era semplicemente vivere in pace con noi, ma per farlo erano costretti a mutare aspetto altrimenti gli uomini li avrebbero uccisi. Nessuno li può biasimare se per millenni si sono occultati. In fondo volevano solo vivere.”

Henry, tu lo sai, sei quasi un figlio per me, ma le nostre idee su questo argomento sono diametralmente opposte. Ora ti racconterò un po di cose che nessuno ti ha mai spiegato. Sai, per esempio, che i rettiliani nel 1994, quando nessuno sapeva della la loro esistenza, iniziarono a nebulizzare ad alta quota nei cieli sostanze metalliche come l'alluminio in forma di aerosol? Le zone interessate venivano irrorate mediante aerei cisterna K10 di queste sostanze conduttive. Immediatamente dopo i laboratori americani situati in Alaska, più precisamente a Gakona, sparavano le onde HAARP proprio nelle aree precedentemente saturate e come per magia in quei luoghi si scatenavano alluvioni devastanti e cicloni terribili.

Questa arma climatica, voluta fortemente dalla confraternita babilonese che già all'epoca lavorava in segretezza per i rettiliani, fu utilizzata numerose volte con successo. Dopo che il mondo islamico ebbe attaccato l'Occidente il giorno 11 settembre del 2001, i militari americani reagirono colpendo con terremoti apocalittici e altre calamità artificiali gli Stati che sobillavano il terrorismo. Visti i successi ottenuti, altri Paesi come Inghilterra e Russia si dotarono della tecnologia Hight-frequency Active Auroral Researc Program detta HAARP. Si tratta, per la precisione, di un'arma geofisica in grado di sparare verso lo spazio esterno microonde di miliardi di watt nella ionosfera; essi poi rimbalzano indietro verso la Terra e creano un buco temporaneo. In segreto, sopra ai cieli dell'Iran, venne aperto per dodici ore un buco nella ionosfera e i raggi ultravioletti passati attraverso l'inesistente strato di ozono ridussero vaste aree in cenere. Un gigantesco rogo onnivoro continuò a inghiottire tutto: uomini, cose, palazzi ed eserciti interi si tramutarono in cenere.

Il presidente americano, instaurato dai rettiliani e membro della confraternita babilonese, dichiarò solennemente al mondo l’assoluta estraneità ai fatti.

Una mattina di due mesi più tardi, il Pakistan, che in gran segreto continuava a proteggere i terroristi, vide giungere da sud-est, un vento anomalo, infido e caldissimo. Il fronte mesociclonico portò giganteschi tendaggi di pioggia, laddove la pioggia non si era mai vista. Un'alluvione di proporzioni bibliche sotterrò in pochissimo tempo quasi metà del territorio pakistano sotto milioni di metri cubi di terra franata e nel giro di dieci giorni il Paese tornò all'età della pietra.

La Cina iniziò a protestare contro l'arma geofisica statunitense presso le Nazioni Unite, denunciando con forza il rischio di danneggiare la ionosfera in modo definitivo. Anche in questo caso una fatalità sospetta si materializzò sul Paese asiatico; un terremoto di magnitudo 9 della scala Ritcher provocò un'enorme onda anomala che colpì la zona costiera di Shangai. Qualcosa come due milioni di km quadrati di territorio sprofondarono di livello, il mare cominciò ad avanzare attraverso ciò che era stato uno dei porti più trafficati del mondo, e la città, che allora contava oltre 18 milioni di abitanti, si trasformò in un'immensa depressione acquitrinosa.

Ormai gli Stati Uniti facevano ben poco per occultare la loro guerra climatica e prima di annunciare al mondo che i Paesi canaglia erano stati puniti, le onde HAARP provenienti dall'Alaska colpirono per l'ultima volta.

Nel cielo di Piongyang, capitale della Corea del nord, si aprì uno squarcio nella ionosfera e nella pellicola che protegge la Terra dalle particelle ad alta energia che provengono dal sole. Così, nonostante fosse un freddo gennaio, la potenza senza freni del sole unita ai raggi ultravioletti ad alta energia si riversarono sulla città. Gli strati più bassi dell'atmosfera divennero un vero e proprio forno e il massiccio bombardamento termico riscaldò l'aria fino a raggiungere gli 80 gradi centigradi. L’area si trasformò in un unico enorme rogo e le conseguenze respiratorie furono letali, dato che l'aria era ormai composta da metano incendiato.

Quello fu l'ultimo utilizzo dell'arma geofisica e la fine della guerra climatica che aveva consentito all'alleanza anglo-americana di sfruttare senza limiti tutte le risorse della Terra. L'oligarchia della confraternita babilonese, dietro le quinte, aveva trasformato il 90% del mondo in una proprietà privata. Ovviamente sempre in linea con le disposizioni ricevute dai rettiliani. Continuiamo dopo, sta arrivando un sacerdote.”

Un grosso fuoristrada, simile a un vecchio Hummer verniciato in nero con la scritta bianca “Police” si avvicinò al maggiore Gregory Ford e al sergente Henry Castle con il lampeggiante blu acceso. I due soldati della cavalleria ausiliaria si staccarono dalla colonna e si fermarono al lato della strada, ancora infangata dall'acquazzone della notte precedente, per accostarsi al veicolo che si era fermato nella sterpaglia che circondava un capannone senza tetto dove gli schiavi umani coltivavano gli ortaggi e le verdure. Il maggiore e il sergente smontarono subito dal cavallo e si genuflessero al cospetto del sacerdote della chiesa babilonese, un rettiliano vestito con la classica tonaca del clero dal cappuccio di colore rosso: “In piedi soldati, sono il reverendo Tammuz. Sono qui per sapere com’è il morale della truppa umana e per chiedervi ragguagli del livello di sicurezza in vista dell'apparizione pubblica di re Nagas II.”

I sacerdoti della chiesa di Babilonia erano tutti rettiliani e fanatici servitori del dio Moloch. Sempre pronti a diffidare degli alleati umani, stavano al seguito dell'esercito impegnato nelle spedizioni fuori dalle mura cittadine, nelle zone abitate dai “selvaggi”. Lo scopo di tali incursioni era catturare tali “selvaggi” per sacrificarli davanti alla sacra statua del gufo. Il gufo era il simbolo del sovrano e la statua era alta 30 metri ed era situata nella piazza del serpente, proprio di fronte alla reggia reale. Non tutti, però, venivano sacrificati sull'altare di Moloch. La maggioranza finiva in schiavitù per lavori forzati o nei settori riservati ai rettiliani, dove venivano divorati dall'antica razza, come i rettiliani amavano definirsi.

Il maggiore Gregory Ford si rialzò e con molta deferenza rispose: “Eccellentissimo reverendo Tammuz, gli uomini sono pronti a difendere il regno e il nostro sovrano con la loro stessa vita. In ogni caso le bande di razziatori non attaccano più da tempo e non è prevista nessuna azione dell'esercito di Nova Urbe.”

Maggiore, apprezzo il suo lavoro e noi tutti dell'antica razza non dimenticheremo mai come ha combattuto nella battaglia di Londra nell'inverno del 2085. Grazie al suo eroismo, dopo trent'anni di faticosa guerra, grazie al suo arrivo ottenemmo la vittoria più prestigiosa della nostra storia ed è anche in suo onore che oggi, nella piazza del serpente, saranno sacrificati trecento prigionieri di guerra. Oggi moriranno loro, e presto spero che morirà anche la loro fede in quell'assurdo falegname. Ora potete andare, fedeli alleati di Moloch.”

I due umani si inginocchiarono nuovamente e all'unisono urlarono: “Lode a Moloch!” Il sacerdote si era già allontanato sul fuoristrada della polizia reale, composta da agenti umani e ufficiali rettiliani; le uniche automobili che circolavano a Londra, capitale del regno anglo-rettiliano, erano quelle delle autorità. Da trent'anni, non un solo uomo guidava un mezzo privato e la poca benzina circolante veniva utilizzata per scopi militari e di ordine pubblico. Le autostrade su cui sfrecciavano pacifiche automobili e gli stupendi ingorghi nella City erano morti per sempre nel 2058. Gli stessi soldati umani usavano come mezzo di locomozione il cavallo; una soluzione che sotto certi aspetti era più pratica delle quattro ruote, visto che in quel simulacro di città gli equini si muovevano più agilmente delle auto tra le disastrate strade in terra battuta, uniche vie di comunicazione dopo il disastro del 2058.



La colonna dell'esercito della confraternita babilonese aveva quasi raggiunto il punto di smistamento, dove le varie unità avrebbero assunto posizione sulle mura di Londra. L'altezza della muraglia, così simile a una diga, raggiungeva all'incirca 140 metri e già solo per questo era la costruzione più ciclopica realizzata dal giorno del disastro. Questo capolavoro di sicurezza, per quanto esteticamente orribile, era il fiore all'occhiello dei rettiliani che tramite questo monumento alla continuità della loro specie intendevano proteggere il loro potere e i necessari alleati umani.

All'interno di questa linea serpentiforme, che dall'alto appariva come una mezzaluna disegnata da una mano tremante, vivevano 800mila alleati umani, circa altri 80mila schiavi, anch'essi umani, e un numero approssimativo di 50mila rettiliani, che dominavano su tutti gli altri.

In quella che il disastro aveva trasformato nella più popolosa città del mondo si poteva vivere decentemente rispetto al mondo esterno al muro. Chi stava meglio di tutti, a parte i rettiliani, erano i dirigenti della confraternita babilonese. Per loro gli schiavi avevano restaurato gli antichi palazzi e costruito un settore riservato, dove l’oligarchia umana godeva di ogni genere di conforto. Molto più in basso nella scala sociale del regno anglo-rettiliano c’erano gli umani che lavoravano e producevano per i padroni dell'antica razza e per la confraternita babilonese. I nuovi servi della gleba coltivavano terreni, allevavano animali, tagliavano alberi, lavoravano nelle poche industrie e abitavano in palazzi comuni, restaurati sommariamente, o in tende, e mangiavano in grandi mense pubbliche. Nei settori della città riservati a loro, l'illuminazione era basata su alcune sparute file di lampioni a petrolio mentre il riscaldamento era rigorosamente a legna. Tutte cose che se paragonate al mondo da incubo dei selvaggi rendevano il regno un paradiso terrestre. Vi erano ospedali da campo e mercati simili a quelli esistiti nel medioevo. La rete telefonica, internet, la corrente elettrica per uso civile e privato erano scomparsi da trent'anni. Le poche industrie esistenti che ricavavano corrente dai grossi generatori a petrolio o a gas, lavoravano e producevano solo per l'esigente industria bellica. I rettiliani e la confraternita babilonese erano in guerra da 30 anni con la città sotterranea di Nova Urbe, perciò lo sforzo bellico assorbiva ogni tipo di risorsa. Il regno anglo-rettiliano aveva la fortuna di poter estrarre il petrolio e i gas naturali dalle piattaforme del Mare del Nord. Il re Nagas II, infatti, era riuscito a far restaurare qualche petroliera che, giunta alle foci del Tamigi, pompava il suo prezioso carico nella chiatte-cisterna che risalivano il fiume, sempre scortate dai gommoni dei militari. Una parvenza di economia era dunque presente, ma la quasi totalità dei benefici andava a incanalarsi nella produzione bellica, che di suo si basava sulla retro-ingegneria, cioè sulla replica di armi utilizzate tra il 1960 e il 1980. Gli altri fruitori delle fonti energetiche prodotte dal regno erano ovviamente i rettiliani e la confraternita babilonese. La loro alleanza andava avanti, all'insaputa del mondo, da millenni, ma da trent'anni era alla luce del giorno. Da questo punto di vista, perciò, poco era cambiato, se si esclude il fatto che ormai l'antica razza controllava una parte minima del mondo, o di ciò che del mondo rimaneva.

Il cosiddetto regno anglo-rettiliano, infatti, si estendeva solo su di una parte della vecchia Londra ed era abitato al massimo da 930mila anime, sempre che i rettiliani ne possedessero una. La capitale della defunta Inghilterra era ancora la città demograficamente più sviluppata nel mondo post psico-peste, a parte Nova urbe che, essendo una metropoli sotterranea, non faceva testo. Seguivano tre protettorati rettiliani: quello di Lugano con 200mila abitanti, quello di Los Angeles con 600mila abitanti e infine quello di Albuquerque nel Nuovo Messico. Questo era tutto ciò che restava del cosiddetto mondo civile, dove l'involuzione tecnologica era regredita a macchia di leopardo, oscillando in alcuni settori di sviluppo tra gli anni ‘60 e il medioevo. Su queste quattro aree comandavano i rettiliani, mentre al di fuori l'intero pianeta brancolava nel caos totale dell'anarchia. L'Europa, l'Asia, l'America, essendo società tecnologiche, erano cadute rapidamente nell'oblio e coloro che erano sopravvissuti all'immane disastro causato dalla pazzia collettiva vivevano ormai allo stato selvaggio vagando da un rudere all'altro in cerca di cibo e di un riparo per la notte.

Anche l'Africa si era presto accartocciata su se stessa e nessuna città del continente nero sopravvisse al 20 aprile del 2058. Ovunque, anche agli estremi confini della Terra, la morte, i saccheggi, la devastazione e la violenza dilagavano come un effetto domino di proporzioni planetarie.

In seguito giunse la guerra, un interminabile conflitto che si scatenò tra i regni rettiliani e gli alleati umani contro Nova Urbe. La nuova città era sorta sotto la superficie di Roma. A Roma non vi erano più il Vaticano, né Colosseo né vie brulicanti di sorridente umanità. Vi era solo una vasta metropoli sotterranea abitata da due milioni di uomini determinatissimi a vincere la guerra. Tutti odiavano visceralmente i rettiliani, sia per quello che avevano causato, sia per la loro fede pagana babilonese.



Gli enormi montacarichi avevano trasportato il battaglione di militari umani sulla sommità della muraglia, mentre in quell'aprile più piovoso del solito violenti tendaggi acquosi si abbattevano, come montagne liquide, sul bordo superiore della fortificazione, largo più di 20 metri.

Gli uomini del maggiore Ford erano posizionati nel settore T14. Era il settore più prossimo alle rive del Tamigi, solo 200 metri di terra battuta lo separava dai moli del fiume. Il vento stava crescendo mentre il sole era del tutto tramontato e a scandagliare tra la rabbia degli elementi rimanevano solo i fari alogeni.

Forza Henry, sarà un turno bagnato. Rassegnati, parka ben chiuso e tanta pazienza.” disse il maggiore, abbozzando un sorriso.

Subito il sergente Henry Castle approfittò della relativa quiete per conversare: “Gregory, ti ho visto un po’ a disagio, prima con il sacerdote. O sbaglio?”

No, non sbagli. Ragazzo mio, i sacerdoti sono rettiliani fanatici del culto di Moloch e nutrono un continuo sospetto verso noi umani. Temono che il nostro fervore religioso non sia genuino, quindi sono sempre attenti ad ascoltare ciò che diciamo e con chi lo diciamo. Ci temono.”

Scusami Gregory, ma tu sei un convertito alla fede babilonese, vedo che hai tatuato sul palmo della mano sinistra il gufo di Moloch. Non dirmi che non credi nel dio rettiliano?”

Ascoltami attentamente Henry, molto attentamente. Io fino a diciotto anni ero un cristiano anglicano. Per me convertirmi e abiurare la mia precedente fede è stata solo una tappa obbligata per fare il soldato tra i rettiliani.

Avevo fame, ero disperato, avrei rinnegato tutto in cambio di poco. Certo, per te è stato diverso, tu sei nato già sotto la fede babilonese, tuo padre e tua madre facevano sacrifici umani in segreto già prima che il mondo conoscesse Moloch.”

Se non ti conoscessi e se non ti avessi visto combattere, direi che non ami i rettiliani e non credi nel dio di Babilonia!”

Sempre più triste per ciò che udiva, il maggiore Gregory Ford si spazientì con il suo protetto: “Ma è possibile che non capisci? Noi uomini siamo diversi dai rettiliani. Io ho ucciso innumerevoli volte in battaglia, ma non ho mai provato piacere. Loro sì. Loro bevono sangue umano e mangiano carne umana per nutrirsi. Loro si alimentano di paura e della adrenalina delle vittime sacrificali. Noi no, io almeno non ho mai fatto quelle porcherie. Ho dovuto assistere ai riti pubblici, per dovere al grado che porto, ma tutto si ferma qui!”

Gregory, tu non immagini quanto ti sono grato per avermi salvato la vita e sai quanto ti è riconoscente mio padre. Ma è stato proprio lui a spiegarmi l'importanza dei sacrifici umani e la necessità di ingraziarsi Moloch. Ed è stato ancora lui a raccontarmi come i rettiliani abbiano mostrato a noi della confraternita la vera fede. Il dio rettiliano ci offre tutti i beni pratici, qui sulla Terra e subito. Non come il Dio in cui credevi un tempo, che aborriva le cose materiali e parlava solo di un'altra vita. Ma quale vita? Se non era per i rettiliani e per il volere del grande Moloch, adesso ci nutriremmo di cani e di topi, come i selvaggi!”

Sei fuori strada” lo interruppe con fermezza il maggiore: “Sei completamente fuori strada perché non conosci la verità. Per esempio tuo padre, prima della catastrofe del 20 aprile del 2058, era il primo ministro di Inghilterra. Ora è uno dei massimi dirigenti della confraternita babilonese. Infatti tu dove abiti? Nella Babilon Tower, il quartier generale dei pezzi grossi. Quando finirai i cinque anni di servizio militare, diventerai anche tu un dirigente e tornerai a passeggiare per i lunghi corridoi di marmo nero, tra pareti di vetro opaco e rampe di scale di granito. Ti immergerai in piscine ellittiche dall'acqua cristallina, inseguendo graziose fanciulle tra giardini tropicali artificiali e cascate gorgoglianti che scorrono su alte pareti di pietra vulcanica. Diventerai un lussuoso ingranaggio senza anima che lavora per gli dei e vive nell'olimpo insieme a loro, e finirai per essere assorbito da quei 60 piani di potere assoluto. Ecco cosa diventerai.”

Intanto, per sfuggire parzialmente alla sfuriata del maggiore, il sergente Henry Castle, figlio del top manager dell’oligarchia umana filorettiliana John Castle, prese a visionare con i binocoli all'infrarosso oltre la muraglia. Il panorama che si presentò al giovane fu un'interminabile sequenza di monotone aree verde marcio, marrone putrescente e grigio piombo, i colori funerei delle zone paludose dove la pioggia avrebbe ristagnato per mesi in quella terra di nessuno e dove sopravvivevano, come cani randagi, i selvaggi. Resti di uomini sopravvissuti a quel giorno infame.



Mentre il tamburellio dell'acqua sui parka impermeabili si era fatto gradualmente meno violento, dopo diversi minuti di silenzio, il maggiore Ford, intenzionato a ritornare sullo scomodo argomento, riprese come un fiume in piena: “Tu parli di strutture sociali e dei meriti dei rettiliani, ma conosci la verità? Non intendo quelle fesserie che vi mettono in testa da bambini. Nemmeno quelle bugie servono a occultare ciò che è veramente accaduto. Henry, devi sapere che quando gli uomini come tuo padre che comandavano il mondo occidentale e che a loro volta erano manipolati dai rettiliani, distrussero definitivamente, e direi anche giustamente, tutti gli Stati canaglia che appoggiavano il terrorismo, i rettiliani capirono che il progetto HAARP non era solo una potentissima arma geofisica, ma qualcosa che poteva essere di grande aiuto alla loro stessa razza. L'antica razza, per motivi ancora oggi ignoti, col passare degli anni, faticava sempre più a utilizzare la forza del pensiero per mantenere aperti i codici genetici che gli permettevano di assumere la forma umana.

Sempre più spesso, e a intervalli sempre più brevi, essi dovevano ricorrere al sangue umano, così importante per i loro processi biologici. Preoccupati, chiesero aiuto ai loro fedeli alleati della confraternita babilonese, alias i potenti che gestivano la tecnologia HAARP. Questa élite, composta dai grandi della Terra, capì presto che quelle ciclopiche antenne potevano emettere nell'atmosfera segnali onda speciali, in grado di interferire con le onde del cervello umano. Il cervello umano pulsa e funziona a una precisa frequenza: se si altera questa frequenza si impedisce al cervello di pensare certe cose, di sognarne altre e soprattutto di vedere ciò che non bisognava vedere. In pratica questa divenne l'arma ideale per la manipolazione mentale. Un vero sogno per i rettiliani che avrebbero così potuto scorrazzare sulla Terra senza più correre il rischio di essere visti e senza più esercitare enormi sforzi mentali per mutare la forma.

Dunque, dopo anni di esperimenti entusiasmanti, scattò l'ora zero, l'alfa e l'omega. Il 20 aprile dell'anno 2058, i cieli di tutto il pianeta ricevettero un'irrorazione ad alta quota di particolari superconduttori metallici nebulizzati, che proseguì per novanta giorni grazie a continui voli di aerei cisterna K10. Immediatamente dopo, vennero attivati i tre giganteschi complessi dotati di antenne HAARP, situati a Gakona-Alaska, Siberia e Inghilterra, i quali immisero nell'atmosfera le speciali onde che avrebbero manipolato per svariate generazioni le menti dell'intera popolazione terrestre.

Ma qualcosa andò storto. Di fronte alle emissioni delle onde HAARP le menti umane, essendo fondamentalmente delle complessissime ricetrasmittenti, andarono in tilt e accusarono gravissimi disturbi mentali, follia omicida e pazzia irreversibile. E fu così che il canto della Terra cessò e gli angeli caduti suonarono l'arpa della morte.

Il resto lo sai anche tu, Henry: la psico-peste trasformò il volto della civiltà umana in un'incubo fatto di cenere e morte!!”





Piazza del serpente, 20 aprile 2088, Londra.



Erano le 23.50 nella piazza del serpente, il luogo ufficiale dove il regno anglo-rettiliano sacrificava pubblicamente gli esseri umani al dio Moloch. Svariate centinaia di selvaggi catturati nelle terre di nessuno o di prigionieri di guerra venivano sgozzati o bruciati, a seconda di ciò che prescriveva il calendario magico babilonese, sull'altare del gigantesco gufo raffigurante la divinità sulla terra.

L'ampia piazza fino a vent'anni prima era chiamata Trafalgar Square. Poi la psico-peste cancellò la civiltà umana e uccise la morale. Dove prima sorgeva la colonna di Nelson, ora era insediato il sanguinario uccello di pietra. Dove prima si celebrava la vittoria del 21 ottobre 1805 della Royal Navy sulla flotta francese, ora si celebrava il potere rettiliano su ciò che restava del mondo. Dove prima splendeva la galleria nazionale che custodiva l'arte umana, con i dipinti dei più geniali pittori del calibro di Renoir, Van Gogh, Leonardo e Monet, ora sorgeva un orrido ziggurat di nudo cemento armato, l'edificio principale del quartiere sacro. La costruzione ospitava la residenza di re Nagas II e il consiglio scarlatto, cioè l'élite rettiliana composta da albini, ed era l'esatta replica di quella costruita alla fine del XXI secolo avanti Cristo a Ur, presso Nassirya. La sua pianta era rettangolare, con muri a profilo di scarpa che sul profilo esterno presentavano massicci contrafforti. Il palazzo reale si estendeva su tre livelli a terrazzi che andavano a ridursi verso l'alto, preceduti da un avancorpo rettangolare, su cui si poggiavano le tre rampe di scalinate d'accesso. I piani bassi del palazzo-tempio ospitavano gli appartamenti dei sacerdoti della chiesa babilonese, mentre il piano più alto era riservato alle stanze reali, alle sale di rappresentanza e soprattutto al “santuario”, che custodiva tutto il simbolismo rettiliano.

La possente base dello ziggurat di sua maestà Nagas II, detto il re serpente, misurava 62,5 metri x 43 e l'altezza raggiungeva i 21 metri. In quella dimora nulla mancava a ai rettiliani, che ancora oggi dominavano la Terra com’era sempre stato fin dall'alba dei tempi. Forse era proprio questo ciò che i sacerdoti volevano mostrare, con le loro cerimonie, ai fedelissimi alleati umani della confraternita babilonese, ma in cuor loro sapevano bene che perdendo la capacitare di manipolare in modo occulto le masse umane avrebbero perso anche buona parte dell'antico potere. Per quella razza parassita era indubbiamente più facile agire nell'anonimato, come aveva fatto dai tempi di Babilonia, piuttosto che dominare a viso scoperto. Del resto la miglior dittatura è quella che non si vede e i rettiliani erano stati i padroni invisibili del mondo fino al giorno in cui la catastrofe li aveva rivelati pubblicamente.

Ora governavano su un frammento di mondo assediato dall'incubo di una rivolta interna, visto che le forze armate erano composte al 70% da militari umani, legati chi più chi meno ai rettiliani, ma pur sempre umani. Senza dimenticare che i confini del regno erano potenzialmente minacciati dalla città-stato di Nova Urbe, che con una buona tecnologia e una popolazione di un milione di umani spinti da una fede cattolica fanatica e da un odio totale verso il male che l'antica razza incarnava, poteva sostenere con meno problemi una guerra che si protraeva da trent'anni.

Il re Nagas II sapeva bene che nell'inverno del 2085 era stato il valore dei soldati umani a fermare l'offensiva dell'esercito di Nova Urbe davanti a Londra e che la vittoria era costata un incredibile numero di soldati e di risorse belliche che il regno non era più in grado più di reintegrare.

Dunque l'élite rettiliana era consapevole del momento critico che l'antica razza stava attraversando, così come ne erano al corrente i dirigenti della confraternita babilonese.



Ormai si avvicinava la mezzanotte e i sacerdoti rettiliani della chiesa babilonese, avviluppati nelle loro tonache scarlatte dotate di enormi cappucci, attendevano l'arrivo dei prigionieri di guerra di Nova Urbe.

Principe, ha visto che la pioggia si è placata? Sarà una splendida cerimonia come ai vecchi tempi.” disse con aria ossequiosa John Castle, ex primo ministro inglese e attuale dirigente della confraternita babilonese.

Caro vecchio John, sono ottimista anch'io. I nostri benefattori rettiliani ci hanno sempre guidato per il meglio, senza contare che il grande Moloch non si è mai dimenticato dei propri devoti. Guarda in fondo alla piazza, stanno già arrivando.” rispose l'ex principe ereditario, Charlie Gordon, anch'esso membro influentissimo della confraternita babilonese.

L'ex Trafalgar Square, ora Snake Square, era attraversata da 300 prigionieri vestiti di stracci e incatenati per le gambe, che trascinavano lentamente i piedi tra il terriccio sterile e fangoso della piazza. I condannati erano guardati a vista dalla polizia del regno, umani che portavano al patibolo altri umani, per la gioia dell'élite rettiliana e umana.

La piazza era un vasto slargo, di norma infestato da anonime erbacce che crescevano a ciuffi nel terriccio polveroso, ma le ultime piogge avevano trasformato il terreno in un’apoteosi di fango. A incorniciare la patetica parodia di quello che un tempo era stato il cuore pulsante di Londra, ora vi erano solo i palazzi diroccati del vecchio mondo, che venivano utilizzati come dimore da uomini ridotti a paria che svolgevano i lavori più umili. Centinaia di rottami di automobili, abbandonate alla ruggine e alle intemperie, costeggiavano il percorso della colonna dei condannati, i quali appena giunti nel luogo sacrificale, furono accolti da un boato emesso dalla folla. Le torce inzuppate di petrolio, poste tutte intorno alla piazza, riflettevano con luce fioca e tremolante, maligne ombre sui volti dei rettiliani, così inespressivi e immobili da gelare il sangue. Quegli esseri non umani riuscivano a rimanere perfettamente immobili per molti minuti, come se fossero assenti, fuori dal mondo, del tutto simili a statue. Poi all'improvviso, sbattevano quegli abomini che a fatica si potevano definire palpebre, per muovere i loro occhi dal taglio orizzontale e spalancare una sorta di bocca lacertiforme dotata di denti aguzzi. Per l’occasione i loro ondeggianti e altissimi corpi erano coperti da una tonaca con cappuccio, lo stesso abbigliamento indossato dagli umani della confraternita babilonese che, come i loro potenti alleati, adoravano Moloch dai tempi di Babilonia, cioè da quando i demoni squamosi avevano portato quel culto sanguinario sulla Terra. Anche l'urlo che salutò l'ingresso dei condannati nella piazza era identico a quello in uso in quelle lontane ere: “Sangue per Moloch!!” gridarono i rettiliani nel loro antichissimo e sgraziato idioma, mentre l'élite umana, che aveva servito quegli esseri da millenni in cambio di potere e ricchezze, si espresse in inglese. Due lingue diverse ma lo stesso obbiettivo: pochi al comando di tanti. Un'oligarchia di potenti che prima del disastro erano primi ministri, proprietari di banche, membri delle famiglie reali, magnati dell'industria, programmati fin da piccoli a comandare il mondo per conto dei rettiliani. Tutti rigorosamente appartenenti all’allora segreta confraternita babilonese. Il mondo in fondo non era cambiato. Prima essi governavano il gregge umano e facevano sacrifici a Moloch in gran segreto; dopo cominciarono a fare le medesime cose in pubblico, cioè davanti ai sudditi del regno anglo-rettiliano che, se volevano lavorare e sopravvivere a quei nefasti momenti storici, dovevano sottomettersi ai loro “benefattori”. Fu proprio in veste di benefattori, infatti, che essi, all’indomani del 20 aprile si presentarono. Quando annunciarono il nuovo ordine mondiale, ovvero l'alleanza con i precedenti uomini dell'élite di potere, da sempre asserviti all'antica razza nella più completa disinformazione dell'opinione pubblica, i rettiliani si affacciarono pubblicamente e prepotentemente sulla scena politica mondiale come i nuovi salvatori. I sudditi del regno anglo-rettiliano e dei vari protettorati lavoravano dalle 12 alle 14 ore al giorno nelle fabbriche di armi, nei campi, nell'allevamento o nell'estrazione mineraria in cambio di una tessera valida per due pasti al giorno da consumarsi nelle mense pubbliche, una doccia alla settimana, anch'essa da usufruire in pubbliche strutture e una quantità misera di denaro per pagare l'affitto di appartamenti diroccati, baracche o tendopoli, molto simili alle tristemente famose favelas del mondo antecedente al disastro.

Sangue al potente Moloch!” urlò l'élite umana, preda di un’esaltazione diabolica, e un’inaudita cattiveria si disegnava sui loro volti. Mentre i trecento prigionieri scortati dalla polizia, composta da umani e da qualche ufficiale rettiliano, subivano una robusta dose di colpi di manganello, atta a dirigere il gregge umano verso l'altare sacrificale di marmo nero, posto ai piedi della statua del grande gufo.

La fioca luce emessa dalle torce e le urla di terrore dei prigionieri gettarono un'atmosfera malata sulla piazza del serpente. I primi sacerdoti rettiliani iniziarono a issare con forza sulla pietra del sacrificio i condannati che dopo tre anni di prigionia a stento si reggevano in piedi. In quel modo iniziò la mattanza, alle vittime, tenute ben ferme sull'apposito altare: veniva recisa loro la gola e il sangue veniva incanalato in appositi scoli di pietra, dove veniva raccolto. Poi, dopo che il numero di sacrificati aumentava in modo esponenziale e i sacerdoti, nonostante l'imponente corporatura rettiliana, cominciavano ad accusare la fatica della carneficina, si fecero avanti i dirigenti della confraternita babilonese. A loro venne permesso di sgozzare i condannati intorno all'altare o nel posto stesso dove si trovavano.

L'ex principe ereditario Gordon, eccitatissimo, disse: ”Carissimo John, questo è il momento del rito del sangue che prediligo.”

John Castle, ex primo ministro d'Inghilterra, rispose con occhi fiammeggianti: “Anche io adoro questo momento topico signore.”

Il massacro continuò per ore; i poliziotti che trattenevano le vittime al posto delle divise nere avevano ormai solo macchie vermiglie di sangue rappreso, mentre i dirigenti della confraternita babilonese, instancabili, procedevano all'opera di sgozzamento con i loro affilati coltelli di ossidiana nera, ricevuti in dono al momento della loro prima professione di fede.





Tre ore dopo, Ziggurat di re Nagas II.



Dopo aver divorato carne umana in abbondanza e averne bevuto il sangue a sazietà, re Nagas II e i suoi simili, gli albini del consiglio scarlatto, cioè l'élite dei rettiliani, lasciarono il primo piano dello ziggurat, preparato a sala da pranzo. I rettiliani dalle squame bianche non avrebbero mai condiviso il pasto con quelli dalle squame verdi o marrone: essi erano il consiglio scarlatto, erano nati per guidare l'antica razza e i re appartenevano sempre alla loro etnia. Essi erano il presente e il futuro della nazione.

Re Nagas II, nei paramenti reali, seguito dai suoi fedelissimi, raggiunse in ascensore il piano più alto della costruzione, il santuario. Si trattava di un ampio spazio, posto sulla sommità dell'edificio, dove si tenevano i riti più segreti della razza, cioè dove gli albini, unica etnia dotata di tale capacità, comunicavano telepaticamente con albini residenti negli altri protettorati d'oltremare di Lugano, Los Angeles e Alburquerque.

La pavimentazione del santuario non era di marmo come negli altri settori dello ziggurat, ma era composta da una terra rossastra disposta irregolarmente. Molti cumuli di provenienza sconosciuta formavano piccole dune che si dilatavano nell'enorme open space. Di anomalo, vi erano anche strane piante simili a cactus che crescevano tra alcune rocce di un colore molto simile alla ruggine di ferro. In quella anomala sala tutto appariva alieno, anche la luce. Molteplici faretti emanavano fasci di tenue luce bluastra, assai gradita ai rettiliani. Forse generava in loro ricordi atavici di un passato millenario, quando ancora non erano giunti sulla superficie terrestre e abitavano chissà dove.

Gli albini del consiglio scarlatto, vestiti di una tonaca che dava il nome al colore del loro consiglio, presero posto in curiosi sedili scavati nel complesso roccioso posto lungo le pareti. L'antro che ospitava sua maestà e i 40 rettiliani albini era largo 12 metri e lungo 18. Tre pareti su quattro erano di roccia nera vulcanica, mentre quella dove era scavato il grande trono del re serpente era composta da una lastra di pietra rossastra molto porosa.

Un silenzio catacombale si diffuse ovunque; a perturbare l'atmosfera da incubo vi era solo una leggera vibrazione generata dalle griglie di ventilazione del soffitto.

Tutta la parete occupata dal trono reale era un capolavoro di bassorilievi, scolpiti chissà dove e chissà quando. Le pregiate incisioni riportavano strane simbologie babilonesi tra cui spiccava Lilitu, la terribile regina della notte metà donna e metà serpente, attorniata da una schiera di gufi che rappresentavano Moloch. Lilitu arrivò in ere remote sulla Terra con il compito di assumere sembianze umane e sottomettere le scimmie parlanti all'antica razza. Molte erano anche le raffigurazioni di rettiliani alati che con la mano destra reggevano una fiaccola e con la sinistra facevano il segno delle corna. Molto più rari erano gli inquietanti bassorilievi di una rettiliana femmina chiamata Labartu, figlia di Anu, intenta a divorarsi un uomo. Tutti i personaggi più rappresentativi della teologia babilonese antica riemergevano nell'anno 2088.

Lo scorrere del tempo sembrava avere smarrito ogni tangibile significato, quando una sorgente vocale ruppe il silenzio sepolcrale di quel luogo: “Fratelli albini, ascoltate le mie parole.” disse re Nagas II, “I tempi non sono più propizi come nell'antica Babilonia, così come non dominiamo più su tutto il mondo come accadeva prima del 20 aprile 2058. Ma i nostri maledetti nemici di Nova Urbe, dopo la fallita invasione, non attaccano più. Nella battaglia di Londra hanno perso i due terzi della flotta utilizzata per sbarcare sull'isola. Da decenni sui nostri cieli non si vedono più i loro aerei, è lecito ritenere dunque che non abbiano più aviazione. In caso improbabile di attacco terrestre, davanti alle imponenti fortificazioni del regno, l'esercito nemico è impotente. L'artiglieria in loro possesso è ben poca cosa: certamente non hanno carri armati, e non dispongono nemmeno più di molti pezzi di ricambio per le colonne motorizzate. Per quanto riguarda il petrolio che estraggono al largo della Sicilia, possiamo affermare con certezza che la quantità estratta non permette loro un riarmo sufficiente. Certo, noi rettiliani non stiamo meglio di loro, ma possiamo azzardare che questa guerra trentennale è in fase di stallo. Al momento, la nostra antica razza non può perdere ma neanche vincere il conflitto, quindi in questi casi la macchina bellica deve momentaneamente passare la mano allo spionaggio. L'intelligence sarà l'arma vincente del conflitto, perché in questo settore siamo decisamente superiori al nemico. Sapere è potere, fratelli del consiglio scarlatto, e proprio poche ore fa ho ricevuto da una staffetta reale il rapporto di un agente umano infiltrato a Nova Urbe.”

Tutto il consiglio non riuscì a trattenere la sorpresa, alzandosi dagli scranni scavati nella pietra. Essere riusciti ad aggirare la maniacale vigilanza dell'inquisizione della città sotterranea era un evento di portata epocale.

Re Nagas II, con un movimento imperioso, alzò la mano destra e aprì le quattro dita. Il silenzio tornò e il monarca riprese a parlare: “L'agente “dormiente” è riuscito a uscire dalla città nemica, incontrarsi con la staffetta, consegnare il messaggio e, molto abilmente, rientrare segretamente dentro a Nova Urbe per continuare l'attività spionistica. Diventando le nostre orecchie e i nostri occhi all'interno del cuore nemico, l'alleato umano ha dimostrato che alcune scimmie parlanti possono essere buoni collaboratori. Perciò a missione terminata diverrà un dirigente tra i nostri fedelissimi alleati umani della confraternita babilonese.

Possedere un infiltrato a Nova Urbe è la buona notizia di oggi. Ma poi vi è una cattiva notizia, che io giudico molto pericolosa per la nostra razza, ed è racchiusa nel rapporto cartaceo dell’agente. In modo conciso ma molto preciso, egli ci segnala che quattro giorni or sono alcune scimmie parlanti dell'anno 2010 sono riuscite a viaggiare nel tempo. Per puro caso, questi umani sono giunti ai giorni nostri, e sono stati sorpresi da una pattuglia dell'esercito di Nova Urbe a pochi chilometri dalla città sotterranea. Immediatamente sono stati arrestati e consegnati all'inquisizione. Di norma sarebbero finiti sul rogo come spie filo-rettiliane, ma purtroppo tra loro vi era un sacerdote cristiano che al suo tempo era un ottimo predicatore. Come potete immaginare, gli inquisitori sono rimasti incantati dalle conoscenze teologiche del prelato e grazie a quell'individuo, che il dio Moloch lo maledica, le scimmie parlanti del 2010 hanno stretto una collaborazione con la teocrazia di Nova Urbe.

Voi potrete pensare che un pugno di umani, tra cui un vecchio prete, per quanto in possesso della tecnologia dei balzi spazio-temporali, possano essere poca cosa.

Ma al contrario, questo evento potrebbe mettere a rischio il destino della razza rettiliana, perché se i due gruppi umani appartenenti a ere diverse dovessero allearsi e condividere la terribile conoscenza bellica degli uomini del passato o venire a conoscenza del modo in cui li manipoliamo da millenni, la situazione potrebbe sfuggirci di mano.”

Un rettiliano dalle squame bianche, di nome Utukku, con un cenno chiese il permesso di parlare al sovrano, il quale disse: “Nobile Utukku del consiglio scarlatto, parla liberamente.”

Il rettiliano chinò leggermente il capo e parlò: “Potente re dei re e figlio di Moloch, penso che anche se l'opinione pubblica del 2010 venisse a sapere che la loro storia è sempre stata pilotata dall'antica razza, i nostri alleati della confraternita babilonese del passato procederebbero a insabbiare tutto. Del resto, non dovrebbe essere cosa difficile, visto che ai quei tempi non vi era capo di Stato, politico o magnate che noi non controllassimo.”

Il sovrano scrollò lievemente il capo squamoso e biancastro: “Nobile Utukku, la tua osservazione è buona ma non esatta. Quello che temo maggiormente è che gli umani, se uniti, possono diventare pericolosissimi. Se si creassero empatia e solidarietà tra i due gruppi di scimmie parlanti, queste emozioni prettamente umane potrebbero trasformarsi in una perniciosa alleanza. Senza scordare che prima della psico-peste l'umanità era in possesso di una tecnologia bellica per noi irraggiungibile, che oggi potrebbe fornire ai nostri nemici. Insomma, gli umani del passato possono diventare troppo pericolosi se in possesso di una macchina del tempo.

Quello che di cui non mi capacito è come gli umani possano aver fatto tutto questo a nostra insaputa, visto che nel 2010 noi controllavamo, a loro insaputa, tutti i Paesi industrializzati della Terra. I viaggi nel tempo non possono essere opera nemmeno dai militari, anch’essi controllati da noi. Possiamo solo immaginare che siano il frutto di qualche potente organizzazione o ditta privata fuori dalla nostra sfera d’influenza. Un cane sciolto, una variabile non controllabile, quindi potenzialmente fatale.

Non resta che unire le potenti menti di noi albini e comunicare telepaticamente con i nostri fratelli del passato. Invieremo loro fortissime visioni inducendoli a cercare la provenienza di tale sapere e a contrastarlo senza indugio. Il viaggio nel tempo non è un'invenzione che si compie dall'oggi al domani, gli umani si devono necessariamente essere ispirati a scoperte della fisica o a esperimenti antecedenti che hanno permesso loro di oltrepassare il muro del tempo.

Dunque chiederemo ai nostri progenitori di indagare e di sabotare le scimmie parlanti in ogni tempo e in ogni luogo.

Non disperate fratelli del consiglio, grazie a Moloch la psico-peste ci ha tolto la facoltà di mutare forma, ma non quella di comunicare telepaticamente con i nostri fratelli!!”

Con un portamento ieratico, re Nagas II si alzò, imitato dai quaranta membri del consiglio scarlatto, e disse: “Fratelli, l'unica cosa che conta realmente è il tempo, il tempo è l'unica realtà. L'unico posto in cui tutto è compreso, anche noi rettiliani ne siamo immersi. Quindi sarà proprio il tempo a darci gli strumenti per impedire alla razza umana di annientarci.

Il teatro bellico sarà il tempo e la posta in palio il mondo presente, passato e futuro. Non temete, figli dell'antica razza, alcune scimmie parlanti dell'anno 2010 sono giunte a muoversi nel tempo, ma non sanno che noi da millenni possiamo inviare in qualsiasi era messaggi e dati ai nostri fratelli sottoforma di comunicazione telepatica o visione. Non possiamo muoverci fisicamente nel tempo, ma i nostri cervelli rettiliani di razza albina, possono trasmettere il pensiero a velocità superluminale ovunque nel tempo. Quindi tenetevi pronti per il grande balzo della nostra consapevolezza verso l'anno 2010, lasciatevi guidare dal vostro sovrano nel comune spostamento della coscienza. Io sarò la vostra guida psichica. Io traccerò la rotta dei vostri pensieri.”

Re Nagas II alzò il capo verso l'altissimo soffitto del santuario, il resto del suo corpo mantenne un'immobilità da rigor mortis. Una staticità che non aveva nulla di umano.

L'attenzione del sovrano si focalizzò su di un punto preciso del soffitto e all'istante lo sfondo stellato di un cielo notturno apparve ai presenti in tutto il suo splendore e incanto. I contorni della sala divennero sempre più labili fino a sparire, ogni concetto di alto e di basso si annullò fino a inghiottire anche il pavimento. La volta celeste materializzatasi dal nulla avvolse tutto. Tutto si tramutò in un'unica materia scura maculata di miliardi di diamanti, mentre all'unisono quaranta rettiliani emisero una serie cantilenante di suoni nella loro antica lingua, che ricordava il rumore di un vecchio tubo di scappamento di camion. Dalla volta stellata che inglobava il santuario scesero quaranta pinnacoli capovolti, simili a tubi biomeccanici trasparenti, nel cui interno si intravedevano intricatissime reti di filamenti immersi in qualche soluzione viscosa. Le propaggini scesero fino a incombere sui crani lacertiformi, poi questa sorta di tentacoli che si agitavano come fossero dotati di vita propria iniziarono ad aprirsi come papaveri, dal cui pistillo calò una fittissima rete neurale formata da una treccia di sottilissimi fili simili ai capelli resinosi di un angelo caduto. Il tecnologico groviglio penetrò lentamente nelle piccole cavità nasali dei rettiliani sino a raggiungere gli emisferi cerebrali.

Il sovrano, scelto tra l'élite albina dei rettiliani proprio per la sua abilità di neuronavigatore, fu in grado di spostare in blocco la coscienza del consiglio scarlatto dall'anno 2088 all'anno 2010, convogliando nella mente le particelle emesse dalla forza del pensiero del gruppo, per poi scagliarle a velocità superluminale attraverso la barriera del tempo. Raggiungendo così la mente collettiva rettiliana residente nel passato.





Giovedì 29 luglio 2010, tempo presente. Sonoma, California del nord.



Il giornalista free-lance Alex Wolf e il suo cameraman Linus Cremona stavano girando un documentario intitolato “Il mistero dei potenti”.

Con il loro vecchio monovolume, un Ford Aerostar del '96, erano partiti da Austin in Texas e ora stavano attraversando le stradine delle rigogliose campagne del nord della California, immerse tra colline e fitti boschi. Un lungo viaggio, ma i due erano certi di portare a termine lo scoop della loro vita, una vera bomba mediatica pagata a peso d'oro. Per due giornalisti semisconosciuti come loro l'evento avrebbe potuto rappresentare il trampolino di lancio verso i grossi network televisivi, quelli dove il denaro circolava a profusione.

Ripreso dalla telecamera di Linus, Alex guidava e nel frattempo introduceva con tono risoluto il reportage: “Tra queste colline alla mia sinistra, nel mese di luglio, da 138 anni moltissime personalità di spicco della politica, dell'industria e dell'economia di tutto il mondo si riuniscono per praticare riti sanguinari in un bosco. Alcuni testimoni sostengono che qui l’élite di potenti esegua sacrifici umani su di un altare posto al cospetto di un gufo di pietra alto 30 metri.

Per quanto questo possa apparire assurdo, tra questi isolati luoghi c'è chi è pronto a giurare di avere visto persone incappucciate compiere arcane evocazioni. Può trattarsi di quella lobby nefasta che negli ambienti vicini a certi innominabili segreti viene chiamata Confraternita babilonese??

Potrebbe realmente essere che il mondo sia diretto da un’oligarchia di folli che compie omicidi rituali per ingraziarsi oscure divinità babilonesi??

Ora verificheremo di persona. Tra dieci minuti circa lasceremo la strada principale e cercheremo di raggiungere un posto ben mimetizzato tra il bosco e la gola della vallata.”

Sei stato grande Alex, per poco convincevi anche me. Peccato che come al solito la tua fonte ti ha preso in giro, così dovremo passare inutilmente la notte in questo posto sperduto.” Aveva parlato in tono scherzoso e paterno, Linus, dato che aveva 54 anni, cioè più di 20 rispetto all'ancorman più sconosciuto d'America.

Ti sbagli fratello. La mia fonte è attendibile. Si tratta di un ricercatore solitario che frequentava queste zone per studiare dei reperti indiani. Quindi non è uno sprovveduto, è un docente universitario. Un giorno si attardò nelle ricerche e così decise di pernottare tra alcune sequoie. Dopo che il sonno lo aveva sorpreso nella sua piccola tenda, udì dei rumori e vide cose che lo spaventarono e fuggì come un cervo, ma non prima di avere visto chi erano quei pazzi incappucciati. Tra loro vi era il presidente Hershel, altri pezzi grossi e alcune strane figure dalla pelle squamosa e dalle sembianze non umane.”

Linus guardò incredulo verso il cielo e scrollando il capo disse: “Tu sei pazzo figliolo e io sono più pazzo di te a seguirti fino in questo posto dimenticato da Dio.”

I due lasciarono il furgone ai bordi della strada e camminarono a lungo all'interno del bosco e finché giunsero a una recinzione fatta con semplici paletti e tre linee di vecchio filo spinato. Sembrava il confine di una proprietà agricola o vinicola. Il vero muro protettivo, tuttavia, era formato da una vasta area paludosa che richiese ai giornalisti due ore di scomodi equilibrismi tra radici nodose che si conficcavano nel terreno acquitrinoso e veri e propri tappeti di foglie putride e marcescenti. In seguito dovettero superare un altro muro composto questa volta da un’intricata vegetazione che oltrepassarono a forza di braccia, facendo presa sul fogliame alto e su spinosi arbusti.

Linus, ansimante e sudatissimo nonostante fosse tramontato il sole e la temperatura ormai si fosse abbassata, disse all'amico: “Alex, io non ce la faccio più. Guarda come sono ridotto, ho le mani sanguinati per colpa di quei maledetti rovi e i miei pantaloni sembrano essere stati immersi nelle fogne di Calcutta. Ma non senti che tanfo??”

Certo che lo sento.” rispose sbuffando Alex, “Se siamo in una palude, cosa pensi di percepire, profumo di lavanda?? Forza, non fermiamoci, che se sono esatte le mie informazioni, tra poco troveremo uno spiazzo con un parcheggio.”

Tu sei mentalmente squilibrato, un parcheggio qui in mezzo al nulla, nella boscosa California del nord?? Ma finiscila.”

Punzecchiandosi a vicenda, i due giunsero sulla sommità di una collinetta, attorniata da grandi sequoie. Da quel punto di osservazione, era perfettamente visibile a non più di 600 metri sotto di loro una vasta spianata asfaltata e una strada privata perfettamente curata che si snodava nella valle sino a scomparire in un fitto bosco.

Alex Wolf disse all'amico: “Linus, quello è un indizio tangibile della veridicità della mia fonte. Ora ci accamperemo tra questi alberi e passeremo la notte. Tra un'ora e mezza sarà buio, nessuno ci vedrà. Poi mi darai ragione, vedrai. E non venirmi a dire che una strada così curata, con tanto di parcheggio, nel bel mezzo del nulla, sia una cosa normale.”

Linus, irritato, rispose: “La strada asfaltata e ben tenuta non significa nulla. Comunque facciamo quello che vuoi, così domattina ti sarai tolto questa assurda fissazione.”

I due colleghi montarono rapidamente una piccola tenda, poi fecero i turni di guardia durante i quali uno dormiva e l'altro osservava la sottostante spianata con la telecamera agli infrarossi. Il tempo scorreva tra il gracidio delle rane e la monotona sonorità dei grilli, in un'apoteosi di cori per nulla piacevoli.

Verso le 23,30 i grilli e le rane tacquero. Un luminoso sciabolare di fari fendette la notte nera come la pece, poi numerose auto presero a sciamare verso il parcheggio. Alex fu subito svegliato dall'amico: “È l'ora, forse avevi ragione. C'è un gran movimento laggiù.”

Alex si alzò come un gatto, sempre al riparo dei grossi alberi: “Linus, forza, riprendi. Riprendi tutto!!”

Molte automobili di lusso giunsero sul posto: Mercedes, Jaguar, Roll-Royce e tutta una panoplia di limusine, senza contare veri e propri convogli di grossi SUV della BMW o della Cadillach da cui scesero molti uomini in abiti classici ed eleganti, ma pesantemente armati di mitragliette MP5 o Colt M4. Avevano tutta l'aria di essere degli agenti del governo ed erano accomunati da un portamento sicuro e militaresco. Subito dopo essere usciti rapidamente dai mezzi diedero una controllata all'ambiente circostante e poi fare uscire i loro potenti clienti. Per fortuna, i controlli furono accurati, ma ristretti al solo perimetro esterno del parcheggio. Infatti, le body-guard, o quello che erano, diedero solo un'occhiata verso la collinetta, limitandosi ad un controllo visivo. Sarebbe stato impossibile scorgere i due intrusi nel profondo buio, così acquattati nella vegetazione, mentre riprendevano tutto con la telecamera all'infrarosso.

Alex sussurrò a Linus: “Come viene la ripresa?”

Linus altrettanto silenziosamente rispose: “Alla grande!! Temo che la tua fonte non ti abbia imbrogliato. Oh cielo santo. L’uomo vicino a quella dozzina di guardie è il presidente Hershell. Sta stringendo la mano al governatore della California. Sì, è proprio lui, con quella stazza ci non si può sbagliare, è proprio Helmut Schuler. Alex, non credo ai miei occhi.”

Basta parlare. Sospendi le riprese e tira fuori i vestiti dalle sacche. Passiamo alla fase due, cambiamoci!!”

Ora era chiaro che quel posto sperduto nel nord della California, incorniciato da colline e boschi secolari, fosse il ritrovo, o forse uno dei ritrovi, dei duemila membri della confraternita babilonese, un'antichissima e segretissima élite di potenti che da quando le acque del diluvio universale si erano ritirate, continuava imperterrita a manipolare gli eventi storici dell'umanità a favore dei propri interessi.

Intanto, mentre i due procedevano a indossare vestiti di buon taglio, sotto di loro, nel parcheggio, erano giunte molte auto elettriche scoperte dietro e dotate di panchette imbottite di pelle che, molto simili alle classiche navette collettive, avrebbero portato i membri della confraternita all'interno di un particolare bosco, distante poco più di due chilometri dal parcheggio. Il luogo, era raggiungibile solo attraverso una piccola strada, asfaltata non idonea alle notevoli dimensioni delle luxury-car degli illustri ospiti.

I giornalisti, spaventati e al contempo consapevoli che quel servizio avrebbe cancellato anni di anonimato, presero coraggio e uscirono allo scoperto con un andamento artificiosamente determinato, per salire su una delle navette insieme a due anziani e distinti signori.

Dopo qualche minuto del tragitto i due oligarchi, che a giudicare dai loro discorsi dovevano essere i proprietari di un grosso gruppo bancario, spostarono la conversazione su un argomento strano e incomprensibile. Uno dei due spiegava divertito all'altro: “Vedi Peter, pensa quant’è stupida la gente. Sono ancora tutti convinti che la guerra di indipendenza americana fu vinta dalle colonie. Ma come fanno a non capire che fummo proprio noi a manipolare sia le colonie sia il regno di Inghilterra. Non furono certo i patrioti americani a ottenere la vittoria, fu l'impero britannico, da noi controllato, a voler perdere la guerra per trasferire di fatto il controllo occulto dei confratelli da Londra agli Stati americani, così ricchi di risorse nuovi. Fummo sempre noi a gettare, proprio da Londra, i semi della rivolta delle colonie, sobillando la rivoluzione contro l'impero inglese. Che stupidi che sono. Ecco perché dal tempo del diluvio li sfruttiamo, quelle bestie da soma!”

L'altro uomo, con fare ancora più ilare del suo socio rispose: “John, immagina se sapessero che Benjamin Franklin, invece di essere un patriota americano indipendentista, era un membro della confraternita babilonese e devoto fedele di Moloch. Nonché uno tra i più assidui frequentatori dei sacrifici rituali. E se sapessero dell'esistenza dei nostri benefattori, l'antica razza!!”

I due scoppiarono a ridere, ma le loro non erano risate allegre, esprimevano viceversa qualcosa di insano e di maligno. All'improvviso cambiarono espressione, tacquero, si guardarono fissi tra loro, poi presero a osservare i giornalisti con aria dubbiosa e interrogativa. Sì, i loro abiti erano impeccabili, ma qualcosa nel loro atteggiamento non era del tutto naturale. Non sembravano uomini di potere, neppure confratelli.

Uno dei due altolocati si rivolse ad Alex e in modo brusco gli chiese: “Signori, voi eravate qui 138 anni fa??”

Alex pensò rapidamente tra sé e séalla frase in codice che la sua fonte gli aveva fornito per momenti come questi. Dopo un centesimo di secondo di vuoto di memoria, che gli sembrò interminabile, con ostentata calma e sicurezza rispose: “Certo confratelli babilonesi, siamo con i Livingstone e siamo stati battezzati in Texas.”

I due oligarchi, quando udirono la parola in codice “Livingstone”, si fecero subito amichevoli. Si trattava di uno dei più potenti clan tra i 95 che formavano la confraternita, e ogni anno, proprio in loro onore, il nome di uno di questi gruppi diveniva anche la parola segreta, insieme al luogo di provenienza. Quell'anno, la segreta riunione di questa pervertita élite era dedicata al clan che aveva donato i tre ultimi presidenti agli Stati Uniti, compreso l'ultimo, il primo uomo di colore a capo della Casa Bianca, Malick Hershell.

La vettura elettrica si fermò in uno spiazzo dove erano giunti già buona parte dei duemila soci della confraternita. I due banchieri salutarono cordialmente i due presunti “fratelli” e si diressero, insieme a una nutrita folla, verso un adiacente area verde, chiamata bosco babilonese.

La moltitudine si stava lentamente recando in questa zona immersa nel vegetazione, ricca di grandi tavoli, illuminati da lampade alogene, dove venivano distribuite bevande, spuntini e dei sai molto simili a quelli usati in molte cerimonie religiose. Erano quasi tutti di colore nero, solo pochi erano rossi.

Linus finse disinvoltura e avvicinandosi all'orecchio di Alex disse: “Presto, dobbiamo andarcene di qui. Cerchiamo un punto dove possiamo filmarli senza essere visti.”

I due giornalisti alla sordina si dileguarono ai margini del piazzale, per confondersi nelle tenebre che avvolgevano il posto. Dopo poco, presero a salire sul pendio di una collinetta fitta di alberi, procedendo molto lentamente dato che il silenzio e la prudenza erano troppo determinanti. Quando furono sulla cima, videro qualcosa di veramente anomalo, mentre Linus già all'opera con una videocamera tascabile disse: “Non fiatare Alex, lo sto già riprendendo. Sto filmando tutto non temere. Si tratta di un gufo di pietra alto trenta metri, su per giù. È una statua impressionante, te lo concedo, ma non significa nulla.”

Alex, disteso a bocconi sull'erba umida a fianco dell'amico, rispose con un filo di voce: “Non significa nulla?? Ma allora sei proprio scemo. Secondo te quel gufo enorme di pietra che, se avessi studiato di più a scuola, sapresti che raffigura il sanguinario dio Moloch babilonese, cosa ci sta a fare nel mezzo del niente?? Poi come ti spieghi quelle carogne, che abbiamo incontrato sull'auto elettrica? Dicevano chiaro e tondo che la loro congrega manipolava l'umanità da millenni! E non venirmi a dire che non hai udito citare una misteriosa antica razza.”

Piantala Alex, quei due potevano benissimo essere millantatori o bontemponi. Sì, abbiamo visto il presidente Hershell, abbiamo intuito la presenza anche degli ex presidenti Livingstone, padre e figlio, ma nessuno mi leva dalla testa che tutto ciò sia una goliardata, una burla. Questa è gente ricca e potente, ama queste eccentricità innocue, poi non è un rea…” Linus non terminò la frase. Alcune fiamme provenienti da numerose torce e da molti bracieri illuminarono a giorno il colossale corpo pietroso del gufo. In basso, ai suoi piedi, vi era un grosso altare di marmo nero e alla sua sinistra una statua alta due metri, raffigurante un umanoide alato dalle fattezze lacertiformi. Ora, illuminato da una luce fioca e tremolante, si distingueva un corteo di uomini, con indosso un saio con cappuccio e una fumosa torcia nella mano sinistra, che si stava raccogliendo attorno a un laghetto. Lo specchio d'acqua stagnante era posto esattamente tra il gufo di pietra e i duemila incappucciati. Una nebbia innaturale e anomala per la stagione estiva si materializzò sull'acqua in un'atmosfera talmente satura di odio e malignità che i peli dello scettico Linus si raddrizzarono sul collo. Sembrava come se tutto il male esistente al mondo si fosse condensato in quel posto.

Ormai, tutta l'area intorno al lago era gremita da una folla di pazzi che stavano immobili in un silenzio spettrale, tutti rivolti verso la statua del gufo gigante. All'improvviso, sbucarono dal buio sessanta sacerdoti vestiti di rosso. Sembrava che trascinassero un carretto con sopra una sagoma umana. Alla vista del carretto la folla di incappucciati si risvegliò dalla propria innaturale staticità e iniziò a urlare con foga e astio: “Bruciamolo. Bruciamolo. Sangue e fuoco a Moloch!!”

Ciò che colpì maggiormente i due giornalisti intenti a osservare con lo zoom al massimo e la visione notturna attivata, furono proprio i sacerdoti dal saio scarlatto. Mentre essi procedevano lungo il breve percorso contrassegnato da teli neri fissati agli alberi facendo incomprensibili scongiuri e strani gesti scaramantici con le corna, divenne chiaro che quel lugubre corteo non aveva nulla di umano. Illuminato dalle torce questo blasfemo clero assomigliava piuttosto a una lunga teoria di rettili giganti. La loro pelle era squamosa, gli occhi e il loro muso erano qualcosa di abominevole. Veri e propri umanoidi lacertiformi con un orrido rostro munito di denti aguzzi al posto della bocca che prese ad articolare versi fastidiosi e ripetuti, simili allo scappamento di un vecchio camion. Forse un'antica lingua perduta nei meandri del tempo, ma certamente non umana.

Intanto tra la folla in saio nero crebbe l'isteria e gli astanti iniziarono a ripetere all'unisono in modo sincopato: “Bruciate quel verme, dategli ciò che si merita. Date sangue e fuoco a Moloch!!”

I giornalisti, dalla loro posizione favolosamente riparata, non cessavano di filmare ciò che i loro occhi non avrebbero mai dimenticato. Il mini-obbiettivo zoomò sul macabro corteo che si era fermato davanti all'idolo di pietra. Improvvisamente l'enorme gufo si illuminò, illuminando una sagoma ancora più imponente delle altre. L'essere abbassò il cappuccio mostrando un cranio di umanoide rettiliano dalle squame bianche, un albino.

Il popolo di folli che guardavano rapiti l'omosaurus tacquero e si inginocchiarono con deferenza. L'altissimo sacerdote rettiliano, che superava i due metri e venti di altezza, ruppe l' inquietante immobilità e mosse le oscene mandibole verso un microfono a stelo ed emettendo una sonorità simile alla lingua inglese ma con vibrazioni da far gelare il sangue disse: “Io, Nimrod, sacerdote della chiesa babilonese, capo del consiglio scarlatto, per la vostra millenaria fedeltà alla causa dell'antica razza, ricchezze e potere non lesinerò mai a voi, o capi del mondo.

Purtroppo, però, vi devo annunciare che da alcuni giorni, noi telepatici figli di Moloch abbiamo ricevuto mentalmente una richiesta di aiuto da parte di alcuni nostri simili in difficoltà. Noi e voi non rimarremmo sordi. Presto riceverete ordini in merito e li eseguirete come avrete sempre fatto. Voi non siete scimmie parlanti come i popoli che dominate per la gloria dell'antica razza. Voi siete i seguaci di Moloch e nulla fermerà il vostro potere sugli uomini. Continuate a sfruttare i vostri popoli, creando divisioni mediante la paura e indebolendoli attraverso l'odio. Ora possiamo procedere con il rito della cremazione.”

La folla, in visibilio, urlò: “Sangue e fuoco a Moloch!!”

I capi di mezzo mondo, banchieri, nobili, ricchissimi industriali, proprietari di grossi network televisivi si erano riuniti nel bosco babilonese, nella contea di Sonoma, per partecipare a quel macabro rituale. Era la follia totale, l'apoteosi del disturbo mentale.

Poco dopo, alcuni sacerdoti rettiliani presero di peso il corpo legato e imbavagliato dal carretto e lo gettarono con violenza sulla pietra sacrificale che, illuminata dalle torce, mostrava una cavità simile a una grossa tazza di pietra piena di liquido infiammabile. Il corpo venne immerso nel liquame. Benché fosse imbavagliato, si udì una voce distorta che implorava pietà. Il sacerdote, di nome Nimrod, iniziò a girare intorno alla pietra sacrificale, recitando antiche e incomprensibili formule magiche, poi con agghiacciante semplicità gettò la sua torcia rituale nel liquido incendiario. Si udirono lancinanti lamenti di dolore, mentre barbigli di fuoco divoravano le carni del poveretto. Continui riflessi, generati dalle onnivore fiamme, lampeggiavano sull'idolo di pietra in una atmosfera dantesca che pareva materializzare, in quell'angolo della California, lo stagno di zolfo della genna.

Abbiamo visto abbastanza. Filiamo via subito.” disse Linus.

Alex, ancora intontito e talmente terrorizzato da rialzarsi a stento, annuì tremante. In una sera, la sua vita era cambiata radicalmente. Tutto ciò che era reale vacillava inesorabilmente, segnandolo talmente in profondità che non sarebbe certamente stato più quello di prima.

I due giornalisti fuggirono dal versante opposto della collina, al principio muovendosi con cautela e poi, appena poterono correndo a più non posso. Dopo un tempo impossibile da quantificare, nel buio totale, il bosco babilonese con le sue alienazioni appariva ormai un puntino luminoso lontanissimo. Non sarebbe stato facile attraversare nuovamente la palude con la sola luce della luna ma fortunatamente nessuno li seguiva.

Linus, il più lucido dei due, teneva stretta in mano la telecamerina, non l'avrebbe fatta cadere per nessun motivo al mondo. In fondo, il loro furgone non era poi così lontano e la fuga procedeva senza intoppi. Forse andarsene poteva essere più facile che entrare in quell'inferno. Camminarono a passo spedito, tra sterpi, rami caduti, acquitrini e una fitta vegetazione circondata da nugoli di insetti, senza incontrare ostacoli. Dopo venti minuti buoni, giunsero finalmente in prossimità del ciglio della strada che portava a Monte Rio dove avevano parcheggiato il monovolume. La meta pareva ormai vicina ai due e la macabra cerimonia lontanissima.

Ecco il Ford.” disse con il fiatone Alex.

Ce l'abbiamo fatta.” disse Linus, tenendosi con una mano la milza e con l'altra la telecamera. Alex si avvicinò alla portiera lato guida, sudato fradicio dalla corsa e infangato all'inverosimile, tirò fuori le chiavi del mezzo dalla tasca posteriore e fece per aprire la portiera, quando un'ondata di luce bianca così intensa da ferire le retine investì i due fuggitivi.

Un uomo parlò a voce alta: “Sono lo sceriffo Wilson della contea di Sonoma, siete voi i proprietari??”

Tirando un respiro di sollievo, Alex rispose: “Sì signor sceriffo, il mezzo è nostro.”

La fortissima luce si spense, lo sceriffo si avvicinò lentamente e aggiunse: “Signor Cremona, è lei il proprietario? Mi mostri la patente.”

Lo sceriffo sorrise gioviale, aveva un faccione pacifico da brava persona e una grossa pancia che debordava dalla divisa.

Ecco la mia patente sceriffo.” disse rassicurato Linus.

Oh. Finalmente è tutto chiaro.” aggiunse gentilmente l'obeso tutore dell'ordine. “Ho trovato il furgone parcheggiato qui, in mezzo al nulla, capisce signor Cremona poteva essere rubato. Così ho fatto un controllo tramite il centro radio ed è sbucato il nome del proprietario. Proprio il suo, confermato dalla patente di guida. Credo che tutto sia risolto.”

Linus Cremona, felicissimo di filare via alla svelta con il suo sconvolgente filmato, infilò le chiavi nella serratura del Ford, quando lo sceriffo sempre con il suo bel sorriso stampato sul suo faccione, disse: “Dimenticavo una cosa, signori. Una mia curiosità. Voi giornalisti non sapete che a cacciare il naso dove non si deve, si corre il rischio di farsi Male?”

Alex guardò allibito Linus, l'amico di sempre, e Linus gli rispose con un laconico cenno d'addio.

Così avvenne. In una frazione di secondo la faccia gioviale dello sceriffo si tramutò in un ghigno satanico e al contempo nella sua mano destra apparve fulminea una Glock calibro 9mm caricata con proiettili Hollow point a punta cava. Centoventicinque grani di palla blindata in grado di entrare nel corpo umano con un piccolo foro per uscirne da un altro grande quanto un piattino da caffè.

L'esecuzione fu fulminea. Il grassone sapeva sparare e anche bene. Doppio colpo al petto di Linus e stesso trattamento ad Alex, il tutto con una velocità di esecuzione da capogiro. Le due vittime caddero a terra come colpiti da un treno mentre i loro petti contenevano una piccola caverna.

Lo sceriffo osservò i corpi senza vita, li perquisì e trovò subito la piccola telecamera. Sempre con estrema calma, prese il cellulare e telefonò: “Eccellenza, sono Wilson - Sì tutto bene - Li ho stesi senza problemi - Sì, non si preoccupi, ora faccio sparire questi escrementi e torno da lei con la videocamera.”















































































CAPITOLO 3: ALFA E OMEGA

Aktay, Kazakistan. Venerdì 27 agosto 2010. Tempo Presente.



Dieci chilometri a nordovest dalla città sorgeva un vasto campus della New Project Division, chiamata da tutti i suoi dipendenti semplicemente Project. Era una società italo-kazaka che nel 2007, grazie all'accordo con il presidente Nursultan Antonov, aveva edificato una struttura unica nel suo genere. Il centro del campus era occupato da un moderno e futuristico edificio di 15 piani simile a un grande cilindro tagliato a metà. Tutti i piani erano occupati da uffici dedicati alla progettazione e allo studio di nuove tecnologie avanzatissime. La Project era una società completamente privata che si finanziava autonomamente, senza ricorrere a nessun ente statale o militare. Il punto di forza aziendale era indubbiamente la riservatezza e proprio per questo aveva edificato la propria sede ad Aktay in Kazakistan, remoto Paese dell'ex impero comunista. Situata a est del mar Caspio, Aktay sorge sulla penisola di Mangyshlak, stretta tra uno dei deserti più aridi del Kazakistan e il mar Caspio. Proprio dal mar Caspio, la città trae l'acqua che placa l'arsura desertica. Un'arsura che oscilla da quella tipica sahariana in estate, a quella siberiana nella stagione invernale: in estate si superano i 40 gradi centigradi e in inverno si toccano punte di 40 gradi sotto zero. Aktay, la città dei cosacchi, è l'unico centro abitato al mondo che vive unicamente di acqua desalinizzata. Gli impianti desalinizzanti trasformano ogni giorno in acqua potabile decine di migliaia di metri cubi di acqua salmastra.

Il defunto impero sovietico nel 1960 aveva fatto sorgere dal nulla questa strana città che, dotata solo di un porto e una centrale nucleare, in 50 anni era riuscita a ricavare il necessario per i suoi 180 mila abitanti. Ma tutto ciò, per i dirigenti della Project, non rappresentava un problema e, anzi, il luogo era l’ideale per impiantarvi un’attività di ricerca senza il fiato sul collo dei curiosi. In quelle steppe, la riservatezza non era una chimera. Inoltre la città kazaka offriva un aeroporto internazionale, un buon porto marittimo e una sufficiente rete di trasporti, sia stradali sia ferroviari.

Fu proprio il chief executive officer italiano, il dottor Mariano Gasperini, a volere fortemente che in Kazakistan venisse costruita una sede da affiancare a quella molto più piccola, presente in Italia. In questo modo il dottor Gasperini non solo soddisfò la necessità del presidente Antonov di favorire gli investimenti esteri ma se lo fece socio in affari. La Project si trovò presto a essere una società di spicco nelle tecnologie del futuro, con un'efficiente logistica proveniente dal più grande porto marittimo del paese, l’Aktay international sea commercial port. Un importante punto di passaggio di tutto il petrolio e di tutto il gas naturale destinati ai Paesi del Caspio e soprattutto investimenti illimitati, poche domande, zero regole e l'appoggio totale del governo locale. Tutte caratteristiche che avevano permesso alla Project di utilizzare in perfetta segretezza una delle tecnologie più agognate e sognate dall'intero genere umano.

Erano sette giorni esatti che i mercenari della la K-group erano rientrati dal crono-viaggio. Ormai gli incendi, il cemento disintegrato dalle bombe e i vapori mefitici come necrosi della Berlino del 1945 erano un lontano ricordo. Tutte e venti le “carogne della guerra”, come amavano chiamarsi tra loro, erano rientrate nel tempo presente senza gravi ferite. Avevano trascorso i sette giorni di riposo forzato, si erano sottoposti a molteplici accertamenti batteriologici e ora erano liberi di rientrare a casa con le tasche piene di soldi. Tutti i contractors, tranne i tre proprietari della società mercenaria, furono incappucciati, caricati su cinque SUV e portati fino a Mosca, dove avrebbero raggiunto la loro sede di Budva in Montenegro con i normali voli di linea. I soldati privati, infatti, ignoravano in quale delle sterminate ex repubbliche socialiste sovietiche, da Kalinigrad all'Ucraina, fossero approdati. Ma tutti i disagi creati dalla maniacale segretezza imposta dai pezzi grossi della Project furono pagati a peso d'oro.



Io mi sono stufato di stare qui. È una settimana che alterniamo passeggiate in questo comprensorio che sembra un campo di concentramento tecnologico, a continui prelievi e analisi. Ora dimmi perché non siamo partiti con gli altri?”

A lamentarsi era stato Voodù, uno dei tre proprietari della compagnia militare privata. Un metro e novanta per centoventi chili di muscoli. Pelle color caffè nero, capelli tagliati alla moicana ed ex campione brasiliano di Vale tudo. Uomo di grande esperienza militare: cinque anni di legione straniera, ex agente speciale del BOPE, i super poliziotti di Rio, mercenario in tutte le guerre e sniper della K-group. Insomma un soldato bravo, preparato e molto serio in missione, nonostante la sua fede nel voodù.

Voodù, lo sai il perché. Così come io so che muori dalla voglia di tornare a Rio a spassartela. Ma non posso dimenticare quell'essere con la divisa dell'NKVD. Voglio sapere cosa diavolo era, cosa combattevamo davvero a Berlino e per chi. E sono sicuro che interessa anche a te. O ci danno delle spiegazioni o stracciamo il contratto.”

A parlare era stato DOC, il comandante dei contractors, la vera mente della società mercenaria. Anch'egli, come il brasiliano, proveniva dalla legione straniera, era di nazionalità italiana, aveva anni di combattimenti sulle spalle e ora era guru della guerra a tassametro e guerriero senza bandiera. Dotato di una statura media, sul metro e settantacinque, per ottanta chili di muscoli sodi e ben allenati. Capelli neri e carnagione olivastra, un uomo medio che si era affermato tra i suoi colleghi per la sua spiccata intelligenza. Del resto era il più colto del gruppo e, anche in guerra, nei momenti di riposo aveva sempre un libro in mano. Difficilmente si spostava senza avere libri con sé, ma quando c'era da guidare i suoi uomini all'assalto era sempre in prima linea e infatti le sue carogne della guerra lo adoravano.

Voodù, datti una calmata. DOC ha ragione, noi siamo i proprietari della K-group, quindi dobbiamo capire se continuarci a fidare del cliente o no.”

Ora la parola era passata a Zagabria, il poliglotta del gruppo mercenario. Parlava tedesco, russo, inglese, francese, italiano e ovviamente croato e serbo. Aveva affinato questa sua abilità nelle carceri di questi Paesi, dove in gioventù spesso era finito per rapina. Poi la legione straniera l'aveva raddrizzato e trasformato in un uomo d'armi assegnandogli un nuovo nome che sarebbe rimasto per sempre il suo soprannome: Zagabria, sua città natale. Al momento del crollo della Yugoslavia di Tito, Zagabria entrava nelle forze speciali della neonata Croazia, per poi passare da una guerra all'altra come mercenario. La sua figura era longilinea e scattante, con un’altezza che superava di poco il metro e ottantacinque e un’abilità impressionante con qualsiasi tipo di arma. Il suo viso affilato, dal classico profilo slavo e con tanto di boccoli biondi poteva richiamare alla mente le immagini iconografiche dell'arcangelo Gabriele. Ma di angelico il suo animo aveva veramente ben poco, perché lo slavo era un tipo che era meglio avere come amico piuttosto che come nemico.

I tre stavano ancora discutendo mentre si avviarono verso l'edificio amministrativo centrale dove lavoravano i dirigenti della Project. Il campus ospitava tremila dipendenti ed era veramente esteso. Il suo personale era formato da fisici, ingegneri, tecnici, amministrativi e infine le arcigne guardie armate provenienti dalla Mongolia che, insieme alle recinzioni elettrificate poste sul perimetro esterno, rappresentavano un sistema di sicurezza invalicabile. Gli edifici che ospitavano gli alloggi dei dipendenti erano immersi nel verde e dotati di molteplici comfort. Il campus era a tutti gli effetti una piccola città dotata di mense, palestre, cinema e ospedale con elisoccorso. Il personale, infatti, doveva risiedere per mesi in questa enclave.

I mercenari passarono a fianco di un enorme cilindro criogenico che conteneva elio liquido. Era alto 12 metri e aveva un diametro di 4. Non era il primo che vedevano in quel luogo: molti altri di quei silos erano presenti giù, nella sezione sotterranea del campus. Il vero cuore della Project, infatti, non pulsava all'aria aperta; in superficie vi era solo il contorno. Il fulcro della base vibrava cento metri sottoterra, dove risiedeva il centro di controllo dell'unità di viaggio, il congegno supertecnologico in grado di tracciare la rotta nell'iperspazio. Cioè quel settore dove lo spazio quadrimensionale veniva curvato e piegato su sé stesso come un foglio di carta. Era già dal 2004 che, nella sede italiana di Genova, gli scienziati della ditta stavano conducendo studi sulla creazione di un cunicolo di tarlo quantico. Ottenere tali risultati avrebbe permesso di gettare il seme da cui far germogliare la macchina del tempo. Nel 2008, in terra kazaka, si passò dalla teoria alla pratica: lontano da sguardi indiscreti, la Project riuscì a produrre fisicamente un cunicolo di tarlo quantico, renderlo percorribile e trasformarlo in una crono-macchina. Il processo necessitava di quattro stadi, rappresentati da quattro laboratori contenenti rispettivamente un collisore, un dispositivo di implosione, un dilatatore e un differenziatore. Ognuno di questi congegni aveva una specifica e complessa funzione. Ciò che richiese maggior sforzo, tuttavia, fu la costruzione del collisore, cioè un acceleratore di ioni pesanti. Aveva dimensioni incredibili: era una galleria che a cento metri sotto il suolo si estendeva per 27 chilometri correndo sotto terreni da allevamento, zone periferiche dell'aeroporto di Aktay, qualche hotel e la moschea cittadina. In pratica si trattava di una copia abbastanza fedele del collisore del Cern di Ginevra. Un autentico complesso acromegalico scavato nel sottosuolo del Kazakistan, a forma di galleria circolare dal fondo piano e con un diametro di sei metri, che costituiva il motore della crono-macchina utilizzata dai corridori del tempo.

Questo propulsore, cioè il dispositivo più ingombrante dei quattro elementi, venne a costare alla Project la mostruosa cifra di cinque miliardi di euro.



I tre mercenari avevano oltrepassato la reception ovale della torre amministrativa, mostrando il badge che li qualificava come consulenti della sicurezza. Erano attesi all'olimpo, l'ultimo piano, il sancta-santorum del potere e del potente tra i potenti dove c’era l'ufficio super lusso del “chairman” Mariano Gasperini.

L'ascensore panoramico esterno, simile a uno strano bozzolo biomeccanico, saliva rapidissimo, mentre sui suoi cristalli a bolla scorreva una pioggerellina rossastra e granulosa che proveniva da chissà quale steppa e si adagiava lenta e tediosa sull’afosa città. Il panorama che si scorgeva era monotono e lontano. Serie e serie di palazzoni popolari dell'epoca comunista, strade polverose, stabilimenti petrolchimici e le numerose ciminiere della centrale nucleare di Aktay che riservava esclusivamente alla Project quantità incredibili di energia.

L'ascensore si aprì direttamente nell'ufficio del dottor Gasperini che, seduto su una poltrona in pelle nera di gran classe e con i gomiti appoggiati a un tavolo ovale con piano di cristallo opaco e basamento di acciaio satinato, senza alzarsi disse: “Signori accomodatevi.” indicando tre poltrone anch’esse nere che spiccavano sul pavimento di marmo bianco percorso da sottili venature verdastre.

I mercenari si sedettero, poi si lasciarono scrutare e analizzare dallo sguardo indagatore del manager, fasciato da un costoso completo nero Valentino tagliato su misura. Lineamenti fini, stempiato, pizzetto curatissimo e occhi enigmatici, un misto tra un imprenditore di successo e un inquisitore del XVII secolo.

DOC passò indenne alla prima scansione visiva del dottor Gasperini, aiutato forse dall'abito classico color sughero, la camicia color becco d'oca, cravatta marrone e pregiati mocassini di morbidissima nappa italiana, color terra di Siena bruciata. Poi toccò a Zagabria. Il capo di Gasperini, oscillò lievemente. Polo bianca, jeans, scarpe da vela bianche.

Quando gli occhi del cliente si posarono su Voodù si dilatarono vistosamente; l’espressione sul suo volto non dava adito a dubbi: era contrariato e quasi inorridito.

Una montagna di muscoli neri, cranio rasato e lucido con cresta moicana. Basettoni alla “Tonton Macoute” di Haiti, mascella prognata e naso dilatato. Anche il vestiario non era d’aiuto: pantaloni attillatissimi di velluto color prugna, che evidenziavano i quadricipiti ipertrofici, una camicia di satin color ciliegia cucita addosso con maniche corte che a stento trattenevano bicipiti scolpiti e tricipiti colossali, mentre dal collo gli pendevano una serie di catene d'oro massiccio stile gansta-rapper.

L'intero esame visivo non durò molto, ma ai tre mercenari parve interminabile. A quel punto il dottor Gasperini tese la mano destra, ornata da un massiccio anello in oro bianco con incisa la croce cristiana, e strinse le rispettive dei suoi ospiti dicendo diretto a Voodù: “Prima di iniziare qualsiasi conversazione, vorrei sapere perché lei signor Luis Freitas continua a venire da me vestito in quel modo. Qui non siamo al circo, ed è stato già avvertito l'ultima volta che ci siamo visti. O sbaglio ??”

Voodù sentì una vampata di collera e proprio mentre stava per mandarlo al diavolo, DOC intervenne con un tempismo cronometrico: “Dottor Mariano, mi permetta di scusarmi per il mio amico. Non voleva mancarle di rispetto, ma deve capire che le mode di oggi sono così. Vanno e vengono.”

Va bene, signor Sforza, facciamo finta di niente. Accetto le sue scuse perché conosco le sue virtù di persona educata. La vede la parete alle mie spalle?” disse il dottor Gasperini, indicando dietro di sé.

La parete, completamente di marmo, era interamente tappezzata dal soffitto al pavimento di antiche cornici dorate che custodivano tutta la simbologia più cara al cristianesimo: fotografie di papa Benedetto XV nell'atto di consegnare un’onorificenza a Mariano Gasperini, foto che ritraevano San Josè Maria Escrivà de Belaguer, il fondatore dell'Opus Dei, nnumerevoli dipinti della passione e ritratti di santi e Madonne, tutti firmati con le lettere greche dell'alfa e dell'omega. L'inizio e la fine, il primo e l'ultimo.

Marco Sforza, nome di battaglia DOC, non rimase meravigliato da quell'ostentazione di fede, dato che tutti gli alti dirigenti di quella società erano pubblicamente conosciuti per il loro zelo cattolico. Infatti nel comprensorio della Project in Kazakistan vi era una chiesa con tanto di sacerdote residente, per garantire il regolare svolgimento quotidiano delle funzioni. Dunque DOC rispose tranquillamente: “Dottore non solo rispettiamo la sua fede, ma la condividiamo totalmente. Siamo tutti e tre cattolici.”

Per quanto riguarda lei e il suo socio, il signor Branko Radic, può andare. Ma per quanto concerne la fede del signor Freitas ho dei dubbi. Come dire, i miei informatori mi riferiscono che spesso ricorre alle blasfeme arti magiche, così diffuse nella sua seppur cattolicissima patria.”

Luis Freitas, il gigante nero brasiliano, chiamato Voodù, fece per alzarsi dalla sedia e sbraitare, ma ancora una volta Marco Sforza intervenne sferrandogli un calcio negli stinchi sotto al tavolo. Mentendo spudoratamente e indignandosi aggiunse: “Dottore, questa è una menzogna, comunque noi siamo qui per queste.”

Quattro fotografie piombarono dal nulla sul ripiano di cristallo satinato del dottor Mariano, gettando l'enorme ufficio, con tutto ciò che conteneva, in un'atmosfera criogenica. Un'immaginaria doccia all'elio liquido cadde sui capelli radi del chairman della Project, il quale dopo averle osservate con enorme stupore disse alterato: “Se avessi saputo che uno di quei misteri di iniquità faceva parte delle file sovietiche che attaccavano la struttura tedesca, vi avrei ordinato di portarmelo qui. Sarebbe stato un sogno avere un rettiliano nelle nostre mani, vivo o morto. Studiarne uno potrebbe farci vincere la guerra!!”

A quel punto il capo dei mercenari ebbe un moto di irritazione: “Dottor Mariano, ora basta!! Vogliamo sapere cosa combattiamo e per conto di chi. Sappiamo che la vostra società possiede la tecnica del viaggio nel tempo e come da contratto potete mandarci a combattere ovunque. Per noi l’Iraq di oggi o la Germania del 1945 non fa nessuna differenza, però se vogliamo continuare il nostro rapporto lavorativo ci deve dire cosa diavolo era quell'essere lacertiforme con l'uniforme degli agenti dei servizi informativi russi preKGB. Questo lo chiedo a nome dei miei due soci e proprietari della K-group, compagnia militare privata che, come lei sa, fa della riservatezza il suo prodotto migliore.”

Mariano Gasperini annuì con il capo: “Signori, sarò diretto. Voi lavorate per chi protegge l'intero genere umano da coloro che da millenni lo circuiscono e lo manipolano con la menzogna. Il mondo non è ciò che sembra, avrete solo una possibilità di sapere tutto. Dovrete lavorare in pianta stabile per me e non più a chiamata. Solo accettando questo legame potrete avere il quadro completo. Vi posso dire che in palio vi è la salvezza degli uomini. Non sarà semplice far crollare l'impero invisibile di quegli esseri diabolici e dei loro servi.

Abbiamo il loro fiato sul collo, quei maledetti hanno orecchie e occhi ovunque. Quindi vi farò un'offerta economica notevolissima: l'ultima missione a Berlino vi ha fruttato un milione di euro ciascuno. Ora aggiungete un due e uno zero. Venti milioni di euro per ognuno di voi per un contratto fino a fine anno. Niente più rischi sottopagati in qualche mefitico angolo del terzo mondo, ma la certezza di rendere un servizio all'intera razza umana. Cosa che vi sarà ripagata in questa vita e nell'altra.

Ovviamente, nella mia magnanima offerta vi è compresa la necessità di mantenere la massima segretezza sulle nostre operazioni. Necessito di un’immediata risposta. Allora accettate??”

Ad alzarsi in piedi, stavolta per la gioia e non più per l'ira, fu il gigante nero brasiliano. “Cosa dobbiamo fare per questa cifra, dottore ?”

Nulla che non avete già fatto in passato: demolizioni, assalti, ricerca e distruzione, scorte forse. Questo è tutto.”

Tutti e tre mercenari tesero la mano all'uomo dei sogni, che inaspettatamente le strinse con calore, per passare subito al “tu”: “Figlioli, venite con me. Le menzogne con cui per anni sono state imbottite le vostre menti si sono sedimentate, ma io le spazzerò via. Permettetemi di raccontarmi tutto dall'inizio.”



I tre soldati di ventura, guidati dal dottor Mariano, lasciarono l'edificio amministrativo centrale tramite una serie di passerelle tubiformi di plexiglass e acciaio che li proteggeva dalla pioggia di polvere e dalla sabbia rossastra del deserto kazako trascinata da un vento che veniva da est, dalle grandi distese polverose e aride dell'Asia centrale. Il vento, caldo e torrido come l'alito di un drago, aveva cancellato in un attimo la pioggia, portando così la temperatura esterna di Aktay a 42 gradi. In un secondo momento, il vento avrebbe ridotto la città a un gigantesco immondezzaio fatto di cartacce, stracci e relitti. Un vero scarico da forno crematorio che tuttavia non infastidiva minimamente i quattro uomini i quali scesero con un ascensore all'ultimo livello della struttura, posto cento metri sottoterra. L'aria all'interno del tunnel dell'acceleratore di particelle era fresca e secca e odorava di ozono. La luce,s bassa e azzurrognola, proveniva da lampade poste sul soffitto e in sottofondo si udiva il ronzare dei macchinari e il vibrare delle pompe dell'aria.

Vedete figlioli, questa galleria misura sei metri di diametro e si estende per ben ventisette chilometri, ovviamente ha un fondo piatto ed è il cuore del collisore.” Mentre Gasperini guidava una macchina elettrica scoperta, faceva da cicerone ai suoi nuovi acquisti.

Questo anello titanico è una copia abbastanza fedele di quella esistente al CERN di Ginevra; loro per costruire solo l'acceleratore, si sono associati con 19 nazioni, noi della Project abbiamo fatto tutto da soli. Ecco, guardate a destra.”

Le tre “carogne della guerra” videro nella parte laterale della sezione rettilinea un grosso locale scavato nella roccia, alto una ventina di metri e completamente occupato da un monolito color antracite dalle dimensioni ciclopiche.

Il dottor Mariano aggiunse con orgoglio: “È un rilevatore detto solenoide a muoioni compatti, con il suo magnete esapolare. Quattordicimila tonnellate di peso e oltre cento milioni di dollari di costo e, come diceva il fondatore dell'opera, San Josè Maria Escrivà de Belaguer, ‘todo modo para buscar la voluntad de Dios’.”

Il brasiliano, stretto nel seggiolino posteriore dell’autovettura elettrica, disse: “Mi perdoni, ma a quale opera si riferisce?”

Il numero uno della Project, sempre concentrato alla guida di quel mezzo che filava quasi a cento all'ora, rispose: “Semplice, figliolo mio. Mi riferisco a chi ha pagato tutto questo, a chi paga la manutenzione, la logistica, gli stipendi dei dipendenti e anche i vostri. L'opera...”

Se permette dottor Gasperini, credo che si riferisca all'Opus Dei.” intervenne spigliato Marco Sforza.

Vedo che la cultura non ti manca, figliolo. Continua pure.” rispose sorridente il dirigente.

Ecco, se la memoria non mi inganna, l'opera di Dio, l'Opus Dei è una prelatura molto influente e ramificata. Si dice che questi “castigamatti” del Signore siano molto influenti non solo nella Chiesa ma anche in tutte le attività laiche, industrie, banche, giornali. Uomini che non esitano ad autoflagellarsi o a indossare ben stretto alla gamba il cilicio.

Caro figliolo, hai fatto centro. Credo proprio che tu abbia grosse potenzialità. Così, come le avete tutti e tre. Vedete, l'uomo è come l'oro, va purificato dalle impurità e dai suoi limiti. Quindi, a volte, per portare avanti questo processo di evoluzione, si necessita l'uso della disciplina.” rispose gioviale Mariano Gasperini. Poi, prima di riprendere la guida in quell'anello sotterraneo affetto da gigantismo, si toccò senza pensarci la gamba destra, dove il suo cilicio irto di acuminate punte continuava a martoriare le sue carni.



Il mezzo elettrico, con i suoi quattro passeggeri, aveva già percorso 12 chilometri e tra poco avrebbe raggiunto la grande piazzola dove l'ascensore a lievitazione magnetica sarebbe sceso ulteriormente in profondità, a quota -100, dove c’era la sala del dispositivo d'implosione.

Gli uomini giunsero in un’enorme grotta attraversata da una moltitudine di grosse tubature che andavano a conficcarsi all'interno di una sfera color antracite dal diametro di venti metri. Una sorta di palla da tennis per titani.

Il dottor Gasperini riprese la spiegazione: “In pratica, senza scendere in dettagli complessi, posso dirvi che all'interno del collisore che abbiamo lasciato a quota -90, un giocattolino da cinque miliardi di euro, i nuclei di uranio e di oro che si scontrano tra loro generano un'energia primordiale che per un breve lasso di tempo raggiunge i dieci trilioni di gradi. Cioè la temperatura presente durante il big-bang cosmico.

La collisione, creata artificialmente, genera anche 1500 miliardi di elettron-volt, qualcosa di mostruoso che gli scienziati chiamano “bolla di plasma quark gluoni”. Il passo successivo consiste nel mettere questa “bolla” nel dispositivo di implosione, cioè il secondo elemento della macchina del tempo. Tutto chiaro figlioli?”

Il croato, il più silenzioso del gruppo, senza troppi giri di parole rispose: “Io non ho capito niente, altro che chiaro.”

Gasperini si portò ai piedi di quell’abnorme sfera scura circondata da una miriade di studiosi in cappa bianca tutti concentrati sui molteplici pannelli di controllo presenti, poi continuò imperterrito la sua “lezione”, certo in cuor suo che l’unico in grado di comprendere i primi rudimenti della fisica quantistica era solo il suo connazionale Marco Sforza. Questa consapevolezza non turbava il numero uno della Project, perché al di là di tutte le prevedibili difficoltà ciò che lo stimolava era l'orgoglio di potere un giorno spedire nello stagno di zolfo quegli agglomerati di male vivente e i loro servi. Questo, i suoi corridori del tempo, dovevano saperlo.

Il nostro dispositivo di implosione è in grado di concentrare un campo magnetico sufficiente a far implodere la bolla di quark gluoni. L'effetto è quello di creare una piccola sfera con una densità di dieci trilioni alla settima potenza di chilogrammo al metro cubo. Il risultato sarà un cunicolo di tarlo quantico. Cioè l'unico seme in grado di far germogliare i viaggi nel tempo.”

Il gruppo continuò a camminare lungo interminabili caverne strappate alla roccia dalla volontà umana. Il paesaggio era decisamente monotono: tubi affetti da acromegalia, che parevano essere stati costruiti da chissà quale razza di giganti seguivano le contorte traiettorie delle infinite gallerie. Mentre dai soffitti, alti più di venti metri, pendevano putrelle di sostegno in acciaio che avrebbero potuto reggere il mondo con tutte le sue follie, tanto erano possenti. Appesi a queste, correva la pipe-line che conduceva l'energia primordiale al terzo elemento della macchina del tempo.

Sempre più a suo agio in quei meandri tecnologici così trafficati da cervelloni concentrati su tabulati e diagrammi, il dottor Gasperini spesso si era figurato nella mente quei dedali percorsi da un gigantesco verme biomeccanico che sparava dal proprio deretano nell'iperspazio i suoi escrementi, dopo aver divorato i suoi serventi in camice bianco che operavano 24 ore su 24 e 7 giorni su 7.

L'uomo tornò subito nel mondo reale continuando a descrivere: “Il nostro terzo elemento del cronoviaggio è il dilatatore. Serve a ingrandire il cunicolo di tarlo quantico e a questo scopo utilizza molti laser ad altissima potenza con un sistema di speciali specchi a rotazione ultrarapida. Il risultato sarà che il dilatatore potrà ampliare il cunicolo originario, delle dimensioni infinitesimali di una particella subatomica, in quello da noi utilizzato, una sfera di dieci metri di diametro. Un cunicolo stabile e sicuro, dunque, che permetta l'accesso a un gruppo di uomini e oggetti, proprio come avete fatto voi quando siete stati inviati nella Berlino del 1945, per raggiungere qualsiasi momento preciso nel tempo e fare ritorno sorridendo. Tutto chiaro?”

Tutti e tre i mercenari ascoltavano il logorroico cicerone con il naso all'insù, al di sopra del quale pendeva una sfera dal diametro di sei metri circa ricoperta da uno strano materiale lucido. Quasi un metallo liquido di colore argenteo da cui fuoriuscivano centinaia di sottili cilindri, probabilmente laser.



Eccoci giunti al quarto e ultimo elemento della cronomacchina. Qui ovviamente ci siete già stati, è il differenziatore. Esso semplicemente converte il cunicolo di tarlo quantico in una reale macchina del tempo e dello spazio, stabilendo la differenza spaziotemporale permanente tra le sue estremità. Il cunicolo piega lo spazio tridimensionale e unisce due punti distanti nel tempo e nello spazio in un istante.

Ecco davanti a voi la cupola di plexiglass corazzata del differenziatore. I tre contractors osservarono quella specie di globo oculare rovesciato, una sfera tagliata a metà di dieci metri di diametro posta su un robusto piedistallo alto due metri e dotato di scale metalliche.

Dalla semisfera fuoriusciva un numero impressionante di connessioni elettriche, simili ai tentacoli biomeccanici di una medusa cibernetica, che si innestavano nell'unità di viaggio. Il locale attiguo ospitava un esercito di studiosi, reclutati a colpi di milioni di euro in tutto il mondo, provvedeva a tracciare la rotta per il cronoviaggio, tramite un sistema chiamato VGL, variabile gravity lock, che scansiona mediante sensori la gravità locale e poi calcola il punto esatto di arrivo, evitando che i viaggiatori si materializzino in un muro o trenta metri sottoterra. O in un tempo sbagliato.



Il CERN si era da tempo fermato al primo elemento, il collisore di particelle, mentre la New Project Division era arrivata all'ultimo elemento. La vera macchina del tempo, una realtà, l'alfa e l'omega, il pricipio e la fine.

Moltissime multinazionali, industrie, apparati militari avevano speso miliardi di dollari e avevano fallito laddove quella semisconosciuta società italo-kazaka aveva fatto centro.

Ora i tre corridori del tempo scorsero ripetutamente lo sguardo da tutte quelle connessioni tubolari all’elegante figura del loro cicerone e subito capirono che molte altre incursioni nel tempo li avrebbero attesi.

Tutto era iniziato in quegli abissi del Kazakistan e tutto sarebbe terminato sempre in quelle profondità tecnologiche.

L'alfa e l'omega.







CAPITOLO 4: FUORI ROTTA

Aktay, Kazakistan. Venerdì 27 agosto 2010. Tempo presente.



L'ora di pranzo era giunta e i quattro uomini decisero di continuare la loro conversazione davanti a del cibo.

Una serie di passerelle tubiformi di plexiglass corazzato e alcuni rilucenti ascensori avevano permesso al gruppo di raggiungere l'edificio amministrativo centrale dell'immenso campus della società italo-kazaka, senza neanche respirare un granello di quelle sabbia rossastra e rovente, proveniente dai deserti polverosi del Kyzylkum al confine con L'Uzbekistan. Una sabbia eternamente generata dalle lande disabitate di un Paese che, con i suoi 2,7 milioni di chilometri quadrati, era al nono posto al mondo per vastità.

Ma al chairman della Project, Mariano Gasperini, poco importava dei 42 gradi che alitavano come il respiro di un titanico forno crematorio sulla città di Akyay, così come non gli importava delle miriadi di emigranti tartari, uzbeki, kirghisi e mongoli che morivano come mosche nelle miniere di ferro del bacino di Kustanaj o negli impianti di trivellazione petrolifera del mar Caspio. Senza dimenticare l'inflazione esponenziale, che rendeva carta straccia la moneta locale, il tenge, e senza dimenticare la corruzione endemica, la fuga della manodopera specializzata russa, il presidente che, con mandato a vita, regnava come un antico mandarino e la privatizzazione pantagruelica che fagocitava tutto. Dalle centrali nucleari alle reti televisive passando per le attività minerarie, insomma un vero terrestre per l'élite estera di potere che aveva acquistato il 90% delle risorse statali. Tutto questo non turbava i pensieri del dottor Gasperini. L'importante era invece far capire ai suoi nuovi acquisti che l'umanità era giunta a un bivio che avrebbe determinato eventi in grado di influenzare il pianeta sia nel presente sia nel futuro. Non era cosa facile far assimilare ai suoi contractors che una razza non umana manipolava gli eventi storici dai tempi delle civiltà mesopotamiche. Ma quello che avevano visto nella Berlino del 20 aprile del 1945, poteva aprire loro la mente.

La spaziosa sala da pranzo, riservata ai pezzi grossi, era stata trasformata in un corposo buffet in modo da evitare che i camerieri udissero le conversazioni segrete che si sarebbero tenute quel giorno. Altra novità del giorno erano gli ospiti che avrebbero partecipato a quel pranzo: niente top manager o industriali, bensì tre uomini d'armi.

Figlioli, vi presento alcuni dei più importanti collaboratori che hanno contribuito al nostro successo.” L'esordio fu secco e deciso: visti gli argomenti da trattare mister Gasperini non ammetteva più nessun bizantinismo lessicale. “In senso orario vi presento il fisico Vadim Chernobrov, la mente primaria della cronomacchina.”

Dal grande tavolo ovale, al cospetto di almeno sei piatti già divorati, si alzò un uomo molto robusto che assomigliava all'attore Peter Ustinov nella sua magistrale interpretazione di Nerone. Stessa corporatura, stessa barba e occhi intelligenti incorniciati in un viso bonario. L’uomo salutò i tre mercenari con una stretta di mano genuina e forte.

Ora passo a presentarvi padre Livio Gonzaga, dottore in teologia e filosofia, direttore dell'emittente cattolica più ascoltata al mondo e direttore spirituale del nostro progetto.”

Anch'egli si alzò salutando gli ospiti con un ampio sorriso. Aveva circa 70 anni, ma ne mostrava dieci di meno, con candidi capelli corti e ordinati che spiccavano sulla tonaca nera. Uno sguardo sereno e limpido che colpì subito i presenti.

L'ultimo nostro collaboratore, che ci sarà molto utile per far luce sull'occulta ingerenza che purtroppo ammorba l'umanità, è il magister inquisitionis Giustiniano.”

Si alzò in piedi un uomo molto alto, sicuramente oltre il metro e novanta. Viso scavato, corporatura asciutta, tonsura da domenicano e abito monacale bianco con cappa nera e cappuccio tirato sul capo. Colpivano i suoi occhi, puro abisso color ghiaccio, uniti al portamento classico di chi è abituato al comando. Lo strano frate salutò con un cenno del capo e impartì loro una benedizione con la mano destra, segnando nell'aria un'immaginaria croce.



Il comandante dei mercenari, DOC, ignorò il buffet e, mentre i suoi due colleghi, che già si erano riempiti i piatti di caviale e tartine, continuavano a ingozzarsi, chiese educatamente: “Chiedo scusa a tutti, ma nonostante la mia discreta cultura storica e la mia stima per Domenico Guzman, fondatore dell'ordine dei domenicani, sono certo che l'inquisizione fu creata durante il concilio di Verona del 1184 da papa Lucio III e fu rinominata “congregazione del Santo Uffizio” nel 1908, dove perse ogni sua antica caratteristica. Quindi, cosa ci fa qui, oggi, nel Kazakistan un inquisitore?? Sono in errore o qualcosa mi sfugge??”

Mariano Gasperini, sorridendo con aria sorniona, guardò ammirato il volto di Marco Sforza, poi gettò uno sguardo sugli altri due contractors, ormai totalmente assorbiti dalle prelibatezze gastronomiche, scosse il capo, e infine rispose: “Caro signor Sforza, ora capiamo perché il suo nome di battaglia è DOC. Evidentemente lei deve essere un eclettico “doctor” in svariati rami del sapere. Comunque mi permetta di iniziare a parlare del perchè abbiamo costruito qui ad Aktay un campus segreto dedicato ai cronoviaggi. Vede, noi volevamo costruire una macchina del tempo per condurre ricerche di ordine religioso e soddisfare certe richieste dei nostri generosi finanziatori.

L'Opus Dei vedeva, per la prima volta, dal 2 ottobre 1928, data della sua fondazione, la possibilità di studiare in loco avvenimenti storico-religiosi importantissimi per la cristianità intera. Immagini di poter viaggiare nel tempo e assistere sul Golgota alla passione di nostro signore Gesù Cristo e studiare gli eventi nella Palestina romana determinati da Ponzio Pilato. Respirare quell'aria, quei momenti eterni sino alla resurrezione del Salvatore. Oppure retrocedere nelle ere, sino a presenziare alla creazione o avanzare attraverso le pieghe del tempo sino a giungere al giorno dell'apocalisse per assistere al combattimento finale della donna vestita di luce che schiaccia la testa del falso profeta.”

Il volto di Gasperini, madido di sudore, realmente anelava l'utilizzo della crono tecnica per esplorare i misteri della fede, ma sembrava mosso da un sentimento che rasentava l'esaltazione mistica. Ripresosi dalla vampata di calore che gli aveva imporporato le gote, inconsciamente si toccò la catenella con le punte di ferro ben serrata alla gamba destra e celata dal suo lussuoso completo, e proseguì: “Ora, voglio che vi sia ben chiaro che tutta questa fantascientifica struttura è esclusiva opera dell'Opus Dei. La società italo-kazaka Project non è altro che un paravento, come penso che qualcuno di voi abbia già intuito.”

Senz'altro Luis Freitas era più interessato a nutrire i suoi 120 chili di muscoli stile gangsta-rap che ad ascoltare tutti quei discorsi astrusi, mentre Branko Radic mangiava, e soprattutto beveva, ma capiva tutto. Sicuramente non era interessato ad altro che al contratto da sogno che aveva firmato. Soldi, gioielli, auto da sogno e un esercito di dolci donzelle era tutto ciò che necessitava. Per il croato le chiacchiere erano un contorno.

Al contrario Marco Sforza continuava a osservare i marmi bianchi e neri a losanga che componevano il pavimento della sala da pranzo: in ogni lastra era incastonato un piccolo asinello d'oro massiccio. Così come le posate, i piatti e i coltelli, anch'esse d'oro, tutte istoriate col medesimo simbolo. L’attenzione di DOC si concentrò poi su una grossa lamina d'oro bianca posta in alto sulla parete principale, su cui era incisa questa frase:



PIU' LUMINOSA DELL'ALBA, SERENA COME LA LUNA, BRILLANTE COME IL SOLE E TERRIBILE COME UN ESERCITO CON LE INSEGNE SPIEGATE.



Atteggiandosi un poco da uomo acculturato, il comandante dei mercenari disse: “Dottor Gasperini e cari signori, come non potevo non notare l'asinello, così caro all'Opus Dei, o opera, come voi membri amate chiamarla.

La cavalcatura che condusse Gesù a Gerusalemme ma anche la croce racchiusa da un cerchio, che ho visto incisa sui gemelli di alcuni dei presenti, e che simboleggia la santificazione del mondo dall'interno. Ho apprezzato infine il brano inciso su lastra, tratto dal “camino”, il capolavoro di San Escrivà e scritto a Madrid nel 1939. Una raccolta di 999 massime di saggezza spirituale, che sarebbero poi diventate il testo fondamentale dell'Opus Dei.”

Padre Livio Gonzaga posò il suo bicchiere di buon vino rosso italiano e le fette di prosciutto sul piatto, si avvicinò a Sforza e ridendo di gusto disse: “Signor Sforza non è che lei ha sbagliato mestiere e invece del mercenario avrebbe dovuto entrare alla pontificia università gregoriana e studiare teologia? Lei è molto diverso dai suoi.”

Lo sguardo del sacerdote indugiò per qualche secondo sul croato con la faccia da rapinatore e sul gigante dalla pelle color petrolio, un'epidermide ormai ridotta a un groviglio di tatuaggi simili a stendardi adatti all'apoteosi di uno spacciatore da strada.

Marco Sforza rispose sorridendo: “Padre Livio, lei mi lusinga. Ma la mia anima è troppo nera per la teologia. Troppi morti, troppe guerre a tassametro, troppa cordite, napalm, schegge e paesaggi ridotti a ossari.”

Padre Livio non si scandalizzò e non perse il suo sorriso luminoso: “Ragazzo mio, devi sapere che Dio è più vicino a te di quanto lo sia la tua arteria femorale. Quello che stai facendo per l'umanità ti redimerà agli occhi del Signore. Non temere, la tua conversione arriverà, ne sono certo.”

Permettetemi di procedere signori, grazie.” Gasperini, un soprannumerario dell'opera nonché numero uno della Project, non voleva assolutamente far raffreddare l'argomentazione tecnica, perciò, un po’ contrariato, proseguì: “Come dicevo, con enormi sforzi l'opera riuscì segretamente a costruire la crono-macchina, qui in Kazakistan. Dopo vari esperimenti condotti con sonde e altre macchine per rilevamenti, procedemmo con le persone ottenendo grandi successi. Quindi decidemmo di inviare il nostro padre Livio, quattro storici e cinque poliziotti di scorta, tutta gente legata all'opera, nella Roma imperiale ai tempi delle persecuzioni neroniane contro i cristiani. Il gruppo doveva condurre importanti studi sulle catacombe, e più precisamente su alcune reliquie sacre successivamente andate perdute.

Ovviamente il nostro personale addetto alla scorta partì disarmato e rigorosamente abbigliato con vestiari in uso in quel periodo storico. Nulla doveva alterare quella linea temporale, quindi cercammo di tenere un profilo a basso impatto nei confronti dello spazio e del tempo che ci avrebbe ospitato. Il punto di partenza fu chiaramente qui in Kazakistan, mentre quello di arrivo doveva essere, spazio: Roma, tempo: ore 10,30 del giorno 3 agosto dell'anno 64 dopo Cristo. Ho detto “doveva”, perché vi fu un piccolissimo errore di calcolo del VGL, il sistema dell'unità di viaggio che calcola la rotta spaziotemporale. Difetto ora completamente risolto. Ma allora, il 21 dicembre 2008, la rotta calcolata era parzialmente errata. Le coordinate spaziali erano esatte, ma quelle temporali completamente sbagliate e, invece di giungere nella capitale dell'impero, i nostri uomini finirono nella Roma del futuro, quella del 16 aprile del 2088, o meglio, in ciò che ne rimaneva.”

Gasperini controllò il suo cronografo Jaeger-Le coultre d'oro bianco e aggiunse: “A questo punto, cedo la parola a padre Livio, testimone diretto del fuori rotta.”

Padre Livio Gonzaga congiunse la mani e inspirò profondamente, come per cercare le parole giuste, poi voltandosi verso i tre contractors disse: “Cari amici, cercherò di essere breve. Come ha detto il dottor Mariano, ero a capo del gruppo di studiosi interessati ad alcune importanti ricerche sulla storia cristiana e in particolare al periodo storico in cui l'imperatore Nerone scatenò tutto il suo odio nei confronti dei cristiani, con persecuzioni di inaudita ferocia. Quando giungemmo in quella che doveva essere la Roma dei cesari, non trovammo nessuna traccia di quella civiltà. Niente terme, niente anfiteatri, niente senato. Tutto svanito. Al loro posto notammo palazzi devastati e strade invase da scheletri di metallo divorato dagli elementi che un tempo dovevavo essere automobili. Ovunque ruotassimo i nostri sguardi, essi si perdevano in un'apoteosi di strutture abbandonate: supermercati, ponti, stazioni ferroviarie, pali elettrici simili a totem deformi conficcati nella nuda terra dove l'asfalto era stato divelto da tempo. Tutto vuoto, tutto morto. Una città fatta di rovi, erbacce, detriti e rottami. Noi eravamo finiti proprio in mezzo a un parcheggio devastato, un piazzale ridotto a discarica e conquistato dalla polvere, dalla morte e dal tempo del dopo disastro. Non ci volle molto al nostro gruppo di ricerca per capire che eravamo finiti fuori rotta. Al posto dei marmi imperiali, trovammo un mondo morto. Dai resti di quella necropoli, capimmo che le auto corrose dalla ruggine, i palazzi devastati dall'abbandono, le strade piene di detriti, sterpi e solchi simili a mortali cicatrici erano i palesi sintomi del collasso della civiltà moderna.

Presto, anche quelle piccole tracce di civiltà sarebbero state seppellite dalla polvere e inghiottite dalla terra. Così come si estinsero i dinosauri, pensammo, si sono estinti gli uomini.

Ma ci sbagliavamo. A qualche centinaio di metri da noi udimmo uno scalpiccio e dei nitriti. Forse eravamo salvi, forse gli uomini non si erano estinti.

Una ventina di uomini a cavallo sbucò da una collinetta di macerie di calcestruzzo e di vecchi pezzi di intonaco. Avevano un aspetto terrificante e grottesco. Erano vestiti nella maniera più disparata: alcuni portavano caffettani dai colori indefinibili, chiazzati di urina e altri liquidi organici di dubbia natura, mentre altri indossavano vecchie mimetiche di chissà quale esercito tramontato e risorto nelle nuove guerre di razzia.

Scesero da cavallo urlando oscenità. Notai che almeno quattro di quei pazzi indossavano abiti da donna, dai colori sgargianti e lunghi fino ai piedi. Non portavano le scarpe e i loro piedi erano lerci come i loro corpi. Il loro fetore, il loro modo di camminare e le loro armi che avevano ci terrorizzavano. Notai che avevano con sé mazze di legno da cui sporgevano chiodi di ferro appuntiti lunghi un palmo. Armi rozze e primitive che avrebbero potuto demolire tendini, devastare ossa e spaccare crani.

Altri scalmanati ci circondarono, puntandoci contro vecchie doppiette da caccia, qualche pistola e molti machete ancora con la lama inchiostrata di sangue rappreso.

I loro volti sporchi incorniciavano denti marci e occhi animaleschi. Ridevano e urlavano cose senza senso. Mi bastarono poche parole, afferrate qui e là in un idioma-non-idioma, fatto di termini latini, italiani e arabi, quasi un Sibir diffuso nei porti del Mediterraneo del '600, per capire che erano attratti dalle nostre tuniche romane di prezioso broccato, quindi ci spogliammo e consegnammo i nostri abiti, rimanendo letteralmente in mutande.

Forse quella banda di predoni si sarebbe accontentata delle nostre pretenziose vesti, o forse no. Appena videro il corpo grasso e tondo del nostro medico, reso più appetibile della sua nudità, emisero urla di gioia dall'orrendo significato. Intuii subito che quella banda di canaglie era dedita al cannibalismo. L'uomo era regredito a quel punto?? Sì lo era, in seguito sapemmo che la penuria di viveri aveva spinto questi gruppi di razziatori a cacciare esseri umani per derubarli e per mangiarli.

Quel mondo primitivo affogato nella violenza costrinse i miei uomini a reagire, così i cinque addetti alla sicurezza tentarono di assaltare l'orda piratesca, ma purtroppo furono abbattuti all'istante a colpi di doppietta e di pistola. Ricordo bene che alcuni grumi gocciolanti, provenienti dal cranio perforato di una delle nostre guardia, mi schizzò in pieno viso. Fu terribile, tanta inutile e ancestrale brutalità. Pensammo che l'ora di tornare dal padre celeste fosse giunta, ci segnammo e guardammo il cielo per l'ultima volta. Sicuramente sarebbe giunto il colpo ferale di machete, una coltellata, o un proiettile di pistola, e poi saremmo stati divorati da quegli esseri regrediti a cani randagi e affamati.

Ma quell'attesa mortale si congelò. Il forte rumore sferragliante di un cingolato fece voltare la banda di ladri-cannibali che, quasi impazziti dal terrore, in un baleno saltarono in sella sui loro ronzini per allontanarsi, ma tre mezzi blindati e cingolati per il trasporto truppe si lanciarono al loro inseguimento. Dai mezzi blindati partirono numerose raffiche di mitragliatrici pesanti, seguite da altre di mitra. Subito dopo dei soldati, di chissà quale esercito, balzarono giù dai blindati e finirono a colpi di fucile i predoni.

Niente prigionieri. Solo un’estesa pozza di sangue che sembrò ingoiare quella ventina di canaglie. La mia attenzione si polarizzò sulle scritte poste sulle fiancate verde oliva dei mezzi cingolati che trasportavano i soldati. La scritta, in vernice gialla, esclamava “Legio nova invicta”. Anche le loro mimetiche, chiazzate di verde e marrone, recavano alamari e frasi inneggianti a quella legione. Il suo simbolo era cucito sulla spalla destra delle uniformi e mi colpì molto, si trattava, di una croce cristiana posta su due fucili mitragliatori incrociati.

Una trentina di soldati perfettamente equipaggiati si avvicinò a noi con le armi spianate. Un loro graduato ci disse brusco di rivestirci immediatamente. Non potevo credere alle mie orecchie, parlavano in latino: non solo l'ufficiale, ma tutti i soldati. A quel punto ci rivestimmo, notando che la nudità era fonte di forte fastidio per loro e, poiché io parlo latino correntemente, osai chiedere spiegazioni.

L'inizio non fu dei migliori, ci volevano fucilare come spie di una misteriosa razza nemica che poi in seguito capii essere quella rettiliana. Con calma, spiegai loro di essere un sacerdote e di venire dal passato e che tutti i miei collaboratori erano membri laici dell'Opus Dei.

Vidi subito che le mie parole fecero effetto sull'ufficiale, così insistetti per conferire con un religioso, invocai spesso il nome del Signore e chiesi l'intervento illuminante dello spirito santo su tutti i militari.

Gli uomini della “legio nova invicta” chiamarono un'autorità religiosa tramite le radio tattiche che avevano sui mezzi. Dopo quasi un'ora d'attesa, sempre in piedi e sotto il tiro dei loro mitragliatori, giunse un fuoristrada militare telonato. L'autista frenò e in una nuvola di polvere scese un uomo molto alto e asciutto. Indossava una mimetica completamente nera con tanto di anfibi e cinturone con pistola dello stesso colore. Ma quello che mi destabilizzò fu che l'uomo, dal profilo rapace, portava la tonsura come un frate e che sulla manica destra portava una croce nodosa cristiana decorata in argento e con una spada sul lato destro.

Era l'antico simbolo della santa inquisizione.

L'uomo mi disse in tono molto burbero e in perfetto latino di essere un “magister inquisitionis” e che noi eravamo prigionieri di Nova Urbe, dove saremmo stati condotti e interrogati.

Quell'uomo, con i simboli dell'inquisizione cuciti sulla mimetica, era ed è il qui presente Giustiniano Johannis, oggi ovviamente non in tenuta operativa. Passo a lui la parola, grazie.”

I tre mercenari guardarono quella figura slanciata che ora si era eretta in mezzo alla sala, come un faro nella notte. Tutta la sua persona era un fascio di nervi e nonostante il saio domenicano che lo avvolgeva dalla testa ai piedi, si notava facilmente il suo portamento atletico, così simile a quello di un predatore. Anche i suoi occhi e il suo profilo sottolineavano un aspetto scaltro e felino. Ma Marco Sforza, bloccò subito l'intervento del religioso venuto da quell'orribile futuro, dicendo: “Mi perdoni padre Giustiniano, se ho compreso il racconto di padre Livio, lei è un inquisitore dell'anno 2088. Ciò significa che l'umanità invece di progredire ha subito un'involuzione in puro stile medioevale. O sbaglio ?”

L'inquisitore incenerì con lo sguardo il comandante dei mercenari, poi disse con una calma glaciale da mettere i brividi e in un italiano dal forte accanto latino: “Magister militum Marcus, non si creda di impressionarmi con il suo curriculum bellico.” Aveva usato un antico termine che significava “capo dei militari”, visto che spesso Giustiniano infarciva l'italiano con termini latini.

Io stesso non ho esitato a combattere contro tutti i nemici della fede. Ho sparso sangue rettiliano nella battaglia di Londra e ho condannato al rogo molti eretici e blasfemi dalla vergognosa condotta morale. Quindi, come avrà certamente capito, a Nova Urbe noi inquisitori e i “famigli”, cioè i nostri collaboratori laici, giriamo sempre armati e tutti abbiamo ricevuto un intenso addestramento militare. Purtroppo, o per fortuna, non saprei, il vostro mondo, che così facilmente ha ceduto alla seduzione satanica dei rettiliani, è collassato il 20 aprile del 2058.

Finito, terminato, estinto.

La vostra società ne ha prodotta un'altra, nuova e migliore, Nova Urbe.

Il vostro tempo è scaduto, la vostra partita terminata e defunta. Le generazioni dopo le vostre si sono scervellate per comprendere le colpe del collasso, per capire perché il vostro perfetto mondo si sia estinto e la risposta è semplice. La colpa è vostra perché i rettiliani si sono occultati tra voi per millenni e vi hanno usato come animali da cortile. Hanno usato il vostro pianeta come un immondezzaio aperto a tutte le scorie e a tutti gli esperimenti. Vi hanno manipolato come marionette, vi hanno spinti all'odio reciproco e a guerre senza senso e hanno sfruttato le vostre risorse con l'antico metodo del “dividi et impera”.

Sapete perché è potuto accadere tutto questo?

Perché siete avidi e i rettiliani e i loro servi umani della confraternita babilonese lo sapevano molto bene. Mai sottovalutare l'avidità delle masse: soldi, potere, sete di mondo. Questo vi ha spazzato via dalla faccia della terra.

Dalla cenere della vostra società marcia è sorta Nova Urbe, una città-Stato sotterranea esempio di moralità, retta dalla legge di Dio e dal suo vicario in Terra, il santo Papa. Questa è la civiltà nuova, la struttura successiva sulla scala evolutiva, quella che meglio è riuscita ad adattarsi all'ambiente ostile da voi lasciato. Nova Urbe è una teocrazia che ha conservato la cultura, la scienza e l'arte. Subito dopo il collasso, quando la psico-peste provocata dal più grande tentativo a livello planetario operato dai rettiliani e dai loro soci umani per manipolare la coscienza della popolazione mondiale falciò 20 milioni di vite umane nelle sole prime 24 ore del disastro, noi già stavamo gettando le basi di una città sotterranea. Un luogo su questa terra, ormai sconvolta dalla pazzia, in cui l'uomo avrebbe potuto vivere da essere umano e non da bestia dedita al cannibalismo. Perché così si ridussero i sopravvissuti, umani divenuti selvaggi, primitive creature razzolanti in una Roma abbandonata e deserta. Niente più fontana di Trevi, niente più piazza Navona, niente più civiltà, solo polvere, edifici diroccati e devastazione totale. Niente ospedali, niente acqua, niente corrente elettrica, nessun tessuto sociale era sopravvissuto in tutto il mondo. La follia omicida trasformò la Terra in un mattatoio a cielo aperto e gli impazziti, mossi da una furia assassina senza limiti, scatenarono le loro pulsioni per mesi e mesi.

All'improvviso, tutti, sani e folli, videro i rettiliani, come se un arcano velo che impediva di vedere fosse stato improvvisamente strappato.

Fu uno shock nello shock scoprire che quegli esseri lacertiformi dalla struttura umanoide erano sempre vissuti tra gli uomini. Tale scoperta scosse in modo definitivo la coscienza degli ultimi umani sopravvissuti.

Veri figli del falsario che da millenni, come parassiti, si erano infiltrati nel tessuto sociale umano allo scopo di manovrarlo a loro piacimento.

Pochi che comandavano tanti. Voi stessi ne avete visto un esemplare nella Berlino del 1945. Quindi immaginate lo smarrimento in cui caddero gli umani quando videro quegli esseri, ormai privi del loro potere di assumere forme umane, fuggire tra palazzi saccheggiati e stazioni ferroviarie devastate dagli incendi. Noi sopravvissuti alla psico-peste di Roma li uccidemmo tutti, dandogli la caccia in ogni nascondiglio della città travolta dalla follia. Io avevo dodici anni allora, e in poche ore ero rimasto orfano: mio padre aveva ucciso mia madre sfondandole il cranio con una mannaia da macellaio. Così fuggii da quell'uomo a cui le onde HAARP avevano divorato il cervello, riducendolo in un colabrodo. Era una sorta di encefalopatia generata da onde così maledettamente simili a quelle emesse dal nostro cervello e che avevano alterato in modo misterioso la mente di un’ampia parte della popolazione che impazzì, uccidendo o uccidendosi. O entrambe le cose, come successe a mio padre e al 90% degli abitanti di Roma e del mondo.

Ma, grazie a Dio, la nostra salvezza venne dalla Chiesa. In Vaticano, i casi di psico-peste, come prese a chiamarla la gente comune, non superarono il 25%. Così molti sacerdoti salvarono gli orfani come me e le persone sopravvissute. Furono proprio i religiosi a condurre il popolo al sicuro all'interno delle antiche catacombe. All'inizio la vita fu durissima, fatta di stenti e giacigli di fortuna, ma alla lunga la capacità organizzativa della Chiesa riemerse. Ci venne insegnato come sopravvivere, nutrirci e costruire sottoterra. In pochi anni la città di Nova Urbe emise i primi vagiti: case, aree coltivabili, allevamenti, generatori elettrici e strade sotterranee ci permisero di espanderci e prosperare nel sottosuolo.

Accogliemmo a braccia aperte gli intellettuali provenienti da tutta l'Italia e da molti stati della defunta Europa. Mentre nel mondo di superficie, il sapere e i suoi araldi stavano affrontando l'imminente estinzione, Nova Urbe apriva scuole, asili e università. Presto, grazie alla teocrazia cattolica ottenemmo un aumento demografico spettacolare, con un vero tessuto sociale funzionante in tutte le sue parti. Attualmente, disponiamo anche una parte della tecnologia del passato, ma non ne siamo schiavi, ed essa è utilizzata principalmente per usi militari, dato che siamo in guerra da trent'anni con i rettiliani.”

Johannis Giustiniano fece una pausa a effetto. Ma l'attenzione dei contractors era già tutta per quel prete guerriero che con estrema facilità passava dalla Bibbia alla Berretta calibro 9 “made in Nova Urbe”.

Il brasiliano Luis Freitas, detto Voodù, osò: “Padre Giustiniano, vorrei conoscere il vostro livello d'armamento, sono molto curioso.”

Il Magister si sfiorò la tonsura imperlata di sudore: pativa particolarmente il caldo, anche se i climatizzatori presenti nella struttura avevano abbassato la temperatura interna a 15 gradi, contro la mostruosa calura esterna che ne sfiorava i 42.

Dopo un attimo di pausa riflessiva, il religioso venuto dal futuro guardò negli occhi l'enorme uomo nero vestito come uno spacciatore di crack, ma nel suo sguardo non era presente nessun tipo di pregiudizio. Da guerriero a guerriero, da alleato ad alleato. Poi disse: “Vede “primus pilus” Freitas, noi di Nova Urbe, fin dai primi mesi del dopo collasso, mandammo alcuni nostri uomini in esplorazione sulla superficie alla ricerca di basi militari abbandonate. Ne trovammo molte, l'Italia era piena di antichi siti Nato. Molti poligoni dell'esercito erano stracolmi di armi leggere, bombe e anche qualche missile spalleggiabile. Presto tornammo nella nostra città sotterranea armati fino ai denti: pistole Beretta, M16, Ar70, kalashnikov, M60, blindati centauro, fuoristrada, munizioni, logistica militare, fornitura medica e carburante. Dopodiché chiedemmo ai nostri ingegneri e studiosi, che con tanto ardore avevano conservato le ultime scintille dell'antico sapere, di portare avanti un progetto di retro-ingegneria. Essi non ci delusero e, basandosi sui molti schemi e disegni rinvenuti in superficie, riuscirono nell'impresa. Attualmente secondo la nostra linea temporale, nel 2088, produciamo ottime pistole calibro 9, mitragliatori, mortai, fucili di precisione, bombe a mano, trasporto truppe blindate e altri articoli militari. Insomma, a parte l'aviazione che è fuori dalla nostra portata, abbiamo una discreta industria bellica.”

Il brasiliano non capì certo che “primus pilus” significava prima lancia, ovvero ufficiale esperto, però comprese il quadro generale dell'esposizione, così aggiunse: “Una discreta industria militare, un buon esercito, tutte cose utili, ma a quanto pare non sufficienti a vincere la guerra contro i rettiliani che purtroppo infestano anche il nostro presente.”

Vedo che ha compreso in pieno. Quelle creature infernali sembrano sempre sul punto di soccombere, ma sono trent'anni che ci tengono testa. Abbiamo tentato anche di invadere il loro insediamento più grande, il regno anglo-rettiliano di Londra. Una battaglia epocale. Può immaginare cosa ci sia costato in mezzi rimettere in sesto una antica flotta navale che giaceva abbandonata nei porti Taranto, Brindisi, Napoli e Spezia. Abbiamo rimesso a punto e revisionato quei vecchi navigli e poi siamo sbarcati sul suolo inglese. Un’impresa immane per i nostri tempi.

È mancato poco che la città di Londra, difesa da un'imponente muraglia, cadesse in mano nostra, ma fu proprio il coraggio dei loro servi umani a causarci gravi perdite e alla fine togliemmo l'assedio. Da allora sono passati due anni e la guerra si è arenata, i nostri timori sono che un giorno nefasto Nova Urbe possa cadere in mano ai rettiliani e ai diabolici alleati che si accomunano a loro per l'insana fede in antichi e sanguinari culti babilonesi. Quindi, una caduta della nostra città sotterranea significherebbe immancabilmente la sconfitta definitiva dell'Homo sapiens libero e non asservito agli abomini. E naturalmente la fine di ogni tradizione umana e cristiana. L'uomo giungerebbe alla sua conclusione terrena in favore di una razza che si nutre di odio e malvagità. Forse, per giungere a questa drammatica parabola discendente del genere umano, ci vorranno magari dieci o cent'anni, ma il rischio non cambia.

Io le chiedo, è forse gusto lasciare il nostro mondo, la nostra sacra Terra a esseri giunti da chissà dove e a un pugno di uomini che di umano non hanno più niente ?

Sono certo che è stato Dio a mandarvi, fratelli dell'anno 2010, a noi uomini così provati del 2088. Perché la Beata Vergine Maria ha portato in grembo Gesù, figlio di Dio, un uomo fatto a immagine e somiglianza del padre, non un maledetto rettile!! Semmai, questi ultimi possiamo dire che siano immagine e somiglianza del maligno, l'eterno nemico dell'uomo, il serpente ingannatore.”

L'uomo venuto dal futuro fece un'altra potente pausa a effetto, poi riprese a tuonare.

Dunque, volete voi battervi contro il nemico che infesta la Terra in ogni luogo e in ogni tempo??”

Il brasiliano praticava la magia per combattere il male e la considerava come una sorta di forza speciale al servizio del bene, perciò rispose deciso: “Magister Giustiniano, a Berlino abbiamo visto putrefarsi sotto i nostri occhi uno di quegli esseri immondi e le posso confermare che era l'essenza del male. Quindi, credo di parlare anche per i miei due soci, non avremo nessun rimorso a spedire all'inferno quei parassiti!!”

Bravi figlioli.” replicò glaciale il prete guerriero. Inspirò a lungo, poi continuò: “Non hanno anima quei mostri, figli dell'omicida fin dal principio.

Al contrario, i loro servi umani della confraternita babilonese avevano un'anima, ma l'hanno persa dannandosi per l'eternità quando hanno deciso di servire i figli del falsario.

Quindi, ucciderli per liberare il mondo di oggi e di domani non è un peccato!! Anzi, è un merito agli occhi del Signore!!”

Tre uomini, tre reazioni.

Nel cuore del brasiliano divampò come un incendio una fede già presente e radicata nel suo retaggio culturale. Un duro, un gigante dalla pelle nera e dall'aspetto poco raccomandabile, ma pronto più a combattere per un fine spirituale che per denaro.

L'italiano, il capo guerra, il “doctor” del gruppo mercenario era felice di accettare la sfida contro forze nemiche insidiose. Ed era felice anche di intascarsi una somma da capogiro. Avrebbe voluto riuscire a credere alla guerra contro il male, ma la sua anima era ancora tormentata da brutti ricordi. Così lontane erano l'assoluzione e la resurrezione come lo era il perdono che anelava.

Il croato, ex rapinatore messo in riga dalla legione straniera, leale ma sempre rapace, venerava i soldi e la Project nella misura in cui poteva scucirgliene tantissimi, quindi lunga vita alla guerra, ai mercenari e alla morte. Avrebbe combattuto ovunque e contro chiunque, e per quello stipendio iperbolico era disposto ad andare a prendere a calci Satana all'inferno.

Marco Sforza riportò la riunione sul piano tecnico: “Magister Giustiniano, se la Project, nostro graditissimo cliente, vuole che noi contractors della K-group vi supportiamo in questa guerra, necessito di qualche dato in più. Quindi, necessito che riprenda la descrizione dal momento in cui padre Livio e la sua squadra di studiosi furono arrestati da lei.”

L'inquisitore annuì dicendo: “Il resto del racconto è molto semplice: li caricammo sui blindati e li scortammo fino a Nova Urbe e dato che non eravamo molto lontani da un ingresso di superficie, dopo poco il nostro convoglio armato si avvicinò a uno degli accessi della città sotterranea.

Una grossa barriera pneumatica a saracinesca, scavata in una minicollina di cemento armato, fu aperta dall'interno. I militari del nostro presidio ricevettero il codice d'accesso via radio e dal pannello di controllo diedero gli imput elettrici che sbloccarono i meccanismi di ancoraggio. La saracinesca si sollevò ed entrammo con i blindati all'interno della struttura artificiale, da cui io, la scorta e i prigionieri prendemmo la scala mobile che conduce in profondità. Mi identificai al posto di blocco della polizia ed entrammo così in città. Ovviamente un magister inquisitionis non prende la “strada celere”, cioè il mezzo di trasporto pubblico di Nova Urbe, ma utilizza i mezzi della polizia cittadina e si fa scortare fino alla sede centrale della santa inquisizione. Noi delle autorità pubbliche siamo gli unici a girare liberamente in città, con auto e furgoni elettrici. I mezzi a benzina vengono utilizzati solo all'esterno e dai militari. Tornando ai nostri eventi, posso dirle semplicemente che nei nostri uffici interrogammo i prigionieri. Di norma in questi casi si passa direttamente alle “questiones”, cioè la tortura regolata e leggera, ma visto che i sospetti parlavano tutti la nostra lingua nazionale, il latino, ed erano in possesso di conoscenze teologiche non comuni, evitai la procedura. Considerando che i prigionieri si dichiararono membri dell'Opus Dei, che nella nostra città gestisce l'archivio di stato e i servizi segreti, mi è bastato controllare i loro nomi sul sistema riservato agli apparati di sicurezza interna, da noi chiamato “Internos”. Ebbene, dalla ricerca incredibilmente emerse che padre Livio Gonzaga e la sua squadra erano “opusiani” dei tempi passati. Quindi, grazie all'impegno del Vaticano, che era riuscito a salvare tutti gli archivi telematici inerenti al mondo religioso del prepsico-peste, potemmo identificare con certezza queste persone. Scoprii anche un dettaglio che avevo dimenticato da tempo: in memoria di padre Livio era stata dedicata una statua in una delle piazze più belle di Nova Urbe, piazza Regina della pace. Avevo davanti ai miei occhi in carne e ossa il più grande predicatore del passato. L'uomo che aveva potato via etere la parola della madre del Signore in milioni di case di tutto il mondo, una leggenda di evangelizzazione per la nostra città. Quindi, dopo aver escluso che l'anomala presenza del gruppo fosse opera di un inganno rettiliano o diabolico, dovetti accettare per forza di cose l'idea che padre Livio e i suoi collaboratori provenissero dal passato.

Contattai immediatamente il Santo Papa, Pietro II, il quale ci ricevette la sera stessa e, dopo un'attenta e illuminata visione, sua santità confermò che la venuta a noi di una delegazione dellOpus Dei proveniente dall'anno 2010 fosse un inequivocabile segno divino.

Sapevamo che la causa effettiva era un errore di calcolo della loro macchina del tempo. Ma nulla avviene per caso, così decidemmo che un'alleanza tra fratelli in Cristo e simili della stessa razza, anche se di due epoche diverse, avrebbe potuto essere utile a tutte e due le linee temporali, la nostra e la vostra. Noi potevamo passarvi tutte le informazioni sui rettiliani e sul loro modo di occultarsi tra gli umani e voi potevate aiutarci a fermare quegli esseri squamosi.

Due guerre diverse, due ere diverse, ma un unico nemico.

Il figlio del demonio contro il figlio di Dio.

Noi uomini contro loro rettiliani.

Così, con la piena autorizzazione di sua santità, papa Pietro II, partii con i nuovi alleati provenienti dal passato come ambasciatore di Nova Urbe.”



La riunione si protrasse per altre due ore, durante le quali il fisico Vadim Chernobrov si esibì in tediosi e inutili dati sulla fisica quantistica, sul ponte Einstein-Rosen, sui cunicoli di tarlo quantico e su una miriade di dettagli relativi alle varie componenti della crono-macchina, con l'ovvio risultato di annoiare a morte i mercenari. Poi toccò a Gasperini, il quale dovette gestire tutte le pratiche contrattuali tra la New Project Division e la compagnia militare privata K-group, di proprietà dei tre mercenari presenti. Anche l'aspetto pecuniario fu concluso con il versamento a ciascuno dei tre soci di venti milioni di euro frazionati in una prima tranche di cinque milioni disponibili subito in una banca di Lugano e una seconda di altri quindici milioni a contratto terminato, in un'altra filiale di Budva in Montenegro, sede della private military company.


















CAPITOLO 5: L'INFILTRATA

Londra, 25 aprile 2088- Regno anglo-rettiliano, Babilon Tower.



Il maggiore dell'esercito della confraternita Gregory Ford stava cavalcando accanto al suo amico, il sergente Henry Castle, e aveva appena terminato di condurre con i suoi uomini un'incursione a una ventina di chilometri dal settore est della muraglia di Londra. Quel settore esterno era una delle innumerevoli aree abitate dai così detti “selvaggi”, terre dove regnavano solo carcasse di auto razziate di tutto l'utilizzabile e capannoni corrosi dalla ruggine. Era una terra di nessuno che si estendeva tutto intorno al muro eretto dai rettiliani e dagli alleati umani. Un'immensa landa che il dopo collasso aveva privato per sempre di ogni traccia di civiltà. Nessuna casa degna di tal nome, nessun agglomerato urbano, nessuna pur minima struttura sociale, tutto perduto, tutto dimenticato. E proprio in quel luogo morto vivevano i selvaggi, come li chiamavano gli abitanti del regno. Esseri un tempo civili, ora vivevano come randagi tra cimiteri urbani di una metropoli dimenticata. Veri e propri monumenti eretti all'annientamento della civiltà umana.

Il convoglio a cavallo era composto da quaranta soldati e da una dozzina di carri-prigione. In questa sorta di gabbie ruotate a trazione equina venivano tenuti in cattività una moltitudine di selvaggi catturati in queste bad lands.

Gli sventurati erano stati sorpresi nel sonno dai soldati filo-rettiliani in un vecchio treno abbandonato su un’ancora più abbandonata linea ferroviaria. Dormivano ammassati come animali, su sedili bruciati e divanetti scardinati, seppelliti tra vecchi teli, cartoni e ogni genere di rifiuti. Denutriti, sporchi e dall'aspetto orribile, anche se tra loro vi era ancora qualche giovane donna gradevole e attraente. Quest'ultimo particolare era stato segnalato dai servizi segreti alla Babilon Tower, rinomata sede del governo della confraternita babilonese. I dirigenti stessi di tale organizzazione avevano subito avallato l'operazione militare. La loro fame di concubine per i loro harem era pantagruelica e il fatto che le ragazze fossero selvagge non era certo una limitazione. Dopo essere state catturate venivano lavate, nutrite ed educate per divenire il trastullo dei potenti dell'élite di potere.

Le sfortunate meno belle insieme ai selvaggi di sesso maschile finivano al mercato degli schiavi di Londra. La manodopera a costo zero era sempre richiestissima nelle miniere, nei campi agricoli e nelle fabbriche. Così, com’era richiestissimo il materiale umano che i sacerdoti rettiliani necessitavano costantemente per i sacrifici rituali dedicati al dio Moloch.

Ma in uno dei carri prigione vi era una giovane donna che non avrebbe certamente finito i suoi giorni in una miniera o su di una pietra sacrificale. Stava con il volto accostato alla griglia metallica fissando il nulla, mentre due cavalli guidati da un soldato seduto a cassetta trainavano il cigolante mezzo impregnato di vecchi umori di urina e feci che si erano indelebilmente attaccati alle pareti legnose.

Tutto il convoglio procedeva cauto e i militari sulle loro cavalcature erano sempre pronti a estrarre dalle fondine agganciate alle selle gli M16, quando il maggiore Ford ordinò alla colonna di arrestarsi e all'orecchio del sergente Castle sussurrò: “Fai riposare gli uomini. Tanto la muraglia di Londra non è distante. Devo fare una cosa.” Fece l'occhiolino all'amico e scese da cavallo, lasciando stupefatto il sergente.

L'ufficiale si diresse a passi svelti, verso la coda del convoglio, dove venivano tenute le prigioniere: “Soldato, apri subito il lucchetto della gabbia. Devo interrogare una schiava.”

Subito maggiore. Agli ordini.” rispose scattante un giovane soldato con l’espressione piena di sotto intesi.

La griglia si aprì e il maggiore afferrò per i capelli la giovane dall'aria spensierata. La tirò giù dal carro con un unico e violento strattone, facendola cadere in una delle tante grandi pozzanghere di melma fangosa che da decenni avevano fagocitato l'asfalto. La donna fece per protestare, ma il maggiore, senza darle il tempo di rialzarsi da terra, le sganciò un manrovescio deciso e poi la trascinò rudemente dietro una collinetta di detriti dove un tempo passava un'importante arteria stradale, ora solo una fetida rovina. Edifici sventrati, marciapiedi divelti, cartelli stradali rottamati e detriti di un mondo morto dappertutto.

Un luogo ideale per il maggior Gregory Ford, un bel posto appartato dietro un ristorante diroccato, ben nascosto da un improbabile occhio indiscreto e piacevolmente spazzato da un tiepido vento che trascinava stracci e foglie morte, ammucchiando in un angolo, un'invitante e morbida gibbosità. Un giaciglio ideale in quello scenario desolato, piatto e spettrale che pareva essere stato partorito dalla mente malate di chissà quale pittore preda di allucinazioni.

La donna fu scaraventata sul morbido avallamento e poi si trovò a due dita dal viso il volto furibondo dell'uomo che soffocando la sua voglia di urlare le disse: “Sei pazza maledetta donna. Vuoi mandare tutto al diavolo??”

Una bella bocca formosa incorniciata da un viso stupendo e dall'incarnato perlaceo. Due occhi a mandorla dalle iridi nere screziate da pagliuzze dorate. Un vero splendore anglo-cinese: lineamenti europei, occhi asiatici. Nome inglese, Gwen. Cognome cinese, Wang. Frutto di un capriccio tra una ricca donna inglese e un duro delle triadi di Hong Kong. Ventiquattro anni, alta un metro e settanta per 58 chili di pura flessuosità. Un vero mix di dolcezza e aggressività, la bella e la bestia. A diciannove anni prostituta di alta classe per ricchi inglesi, a ventuno killer dal cuore di ghiaccio per le triadi di Hong-Kong. Poi l'arresto per numerosi omicidi, la condanna all'ergastolo, evitata all'ultimo istante grazie all'intervento dell'Opus Dei e ora agente segreto inviato nel futuro come infiltrata da Mariano Gasperini.

Non era una selvaggia cresciuta nel catastrofico mondo del 2088, non aveva mai bevuto acqua putrida, non era sporca e non si era mai nutrita di ratti. E questo era evidente.

Il maggiore Ford inveì ancora. “Manca solo che ti facevi trovare truccata, così eravamo morti entrambi. Mi vuoi fare finire sull'altare sacrificale, o casa??”

Seguì un'altra sberla, ma stavolta la ragazza, lontano da occhi indiscreti, abbandonò la parte della giovane indifesa e bloccò fulminea con il gomito destro lo schiaffo del militare e con la mano sinistra aperta colpì con un “iron palm” il setto nasale dell'uomo che sanguinò all'istante.

Si era trasformata in ciò che era realmente, una splendida ma letale creatura, ideale per il suo pericolosissimo incarico da infiltrata.

Il militare rimase allibito e con le mani a coppa sul naso sanguinante ascoltò l'infuriata asiatica: “Senti bene scimmione, alza ancora una volta le mani e giuro che stavolta il naso te lo rompo davvero. Cosa dovevo fare di più, mi sono infiltrata tra quei poveracci, mi sono fatta catturare dai tuoi maneschi soldati, presto andrò a finire nel letto di quell'insetto che conosci bene e tu credi che mi faccia picchiare da te, il mio contatto, l'uomo che mi dovrebbe aiutare a sopravvivere in questo tuo mondo o linea temporale o come diamine si dice. Mi avevano detto che eri uno in gamba, invece temo proprio che voi di questo tempo siate tutti bestie!!”

Il maggiore, altrettanto inviperito, replicò: “Forse siamo delle bestie, noi gente del 2088, perché voi uomini e donne del passato non siete stati capaci neanche a riconoscerli, i rettiliani. Anzi, alcuni di voi ci sono andati d'amore e d'accordo. Comunque lasciamo stare queste cose e veniamo alla missione, miss “so tutto”: per prima cosa, sei troppo diversa dalle selvagge. La tua pelle è troppo vellutata, il tuo fisico è troppo perfetto. Insomma, non sembri una di loro.”

La donna cambiò nuovamente personalità, la tigre lasciò il campo alla gattina seducente. I suoi occhi allungati si illuminarono riflettendo una miriade di schegge dorate, e con voce calda e melodica, quasi ipnotica, disse al militare: “Allora è stata questa mia mancanza a suggerirti di picchiarmi e di pensare di violentarmi. Lo fai per la missione o perché ti piaccio?? Perché se ti piaccio, non c’è bisogno di fingere, basta dirlo!!”

Il viso del maggiore Gregory Ford avvampò di un rossore imbarazzante.

Novanta chili di muscoli forgiati nel sangue nemico si arenavano contro cinquantotto chili di seduzione bollente.

Quella ragazza era realmente l'infiltrato perfetto, un camaleonte mortale pronta a divorarsi l'insetto.

La provocante anglo-cinese tornò alla carica dell'intimidito militare, ammutolito da cotanta sfacciataggine, gli passò la lingua sulla gola e gli sussurrò: “Forza, violentami alla svelta. Tutto sembrerà più reale, fallo per la missione.”

All'istante l'uomo sentì un forte calore alla bocca dello stomaco e nemmeno si riuscì a ricordare l'ultima volta in cui gli fosse capitata una cosa del genere. Sempre se gli fosse mai capitata!!

Dieci minuti dopo il maggiore tornò tra i suoi soldati, la schiava era finita nuovamente sotto chiave e il plotone a cavallo si rimise in movimento.



Giunsero tutti all'interno della città dalla porta est della gigantesca muraglia che come un antico vallo romano divideva le terre di nessuno dalla civiltà. O meglio, da ciò che tentava di essere una società civile, retta dalla confraternita babilonese per conto dei padroni rettiliani. La confraternita era invero un governo fantoccio composto da umani agli ordini delle creature lacertiformi e fu proprio questo connubio razziale a erigere la ciclopica fortificazione di Londra.

Ma se la muraglia londinese e lo zigguratt erano il fiore all'occhiello dei rettiliani, la Babilon Tower era per gli alleati umani della confraternita il cuore pulsante di un potere che, pur essendo sottomesso alla razza padrona, era inarrivabile per le altre masse di umani. E proprio alla Babilon Tower si stava dirigendo con il suo prezioso carico umana la colonna a cavallo, ormai entrata in città.

Scusa Gregory, posso farti una domanda?” chiese ridacchiando dalla sua cavalcatura il sergente Henry Castle.

Certo.” rispose gentile il maggiore Gregory Ford, mentre si toglieva dal capo il cappuccio del parca mimetico. La pioggia era cessata e la temperatura si era stabilita sui venti gradi.

Dimmi maggiore, sbaglio o sei andato a violentare una schiava? Lo sai che è proibito? Quelle belle sono proprietà privata dei dirigenti.”

Gregory, rispose ridacchiando: “Perché, sei geloso? O vuoi fare la spia a tuo padre, appena entriamo nella Babilon Tower?”

Sai bene che non farei mai una cosa simile a chi mi ha salvato la vita in guerra quando ero una impaurita recluta. Ma, certo, non posso fare a meno di notare che stai cambiando. In meglio intendo. Ora in te non vi è più quell'assurda empatia verso i selvaggi. Loro sono solo le nostre bestie da lavoro, tutto lì. Lo so che anche tu, da ragazzo, eri uno di loro, ma ora lo hai dimenticato e hai fatto bene! Perché ora sei il più rispettato guerriero della confraternita e anche re Nagas ha apprezzato il tuo eroismo contro gli invasori di Nova Urbe e contro i razziatori. Ora sei diventato un mito!

Peccato che non potrai mai diventare un dirigente. Purtroppo, come sai, il ruolo è tramandato da padre in figlio dai tempi d'oro di Babilonia. Ma non disperare. Forse per una personalità come la tua potrebbe intercedere direttamente il consiglio scarlatto dei rettiliani. Loro se vogliono possono tutto.”

Il maggiore, sul suo cavallo, si eresse in tutta la sua statura in modo imperioso, armato fino ai denti di pistola fucile d'assalto e svariate bombe a mano. Sembrava proprio un antico condottiero. Almeno così appariva a tutti i quaranta soldati del convoglio, i quali lo rispettavano moltissimo, così come lo ammiravano molti pezzi grossi dell'élite dirigenziale. Soprattutto John Castle, il potente dirigente della confraternita, a cui il maggiore aveva salvato da morte certa il figlio.

Fu proprio il ragazzo, a continuare la conversazione: “Sai che i selvaggi sono ghiotti di kebab di ratti?”

Guardando il cielo latteo e pensando alla stupidità del giovane, il maggiore rispose: “Non è che sono ghiotti di carne di topo, è che non hanno molto da scegliere. Noi del regno anglo-rettiliano alleviamo maiali, mucche, pecore e polli. Abbiamo schiavi che li accudiscono e che coltivano il terreno: mele, grano, luppolo. Insomma abbiamo una buona scelta di cibo, loro no. Ricordo che quando ero ancora un ragazzino, prima di entrare nell'esercito, vivevo come loro e mangiavo come loro, cioè come un cane randagio, o forse peggio. Un giorno, vicino all'estuario del Tamigi, vidi molti uomini dalla pelle olivastra, tutti vestiti con un caffettano lungo fino ai piedi. Avevano tutti minacciose barbe lunghe ed erano armati di kalashnikov. Erano arabi che controllavano tutto quel settore, che un tempo ospitava i magazzini di stoccaggio merci. Avevano volti scolpiti nella pietra e occhi assassini, stavano intorno a una bancarella ricavata dall’androne di un edificio abbandonato dove un altro arabo cucinava su una griglia recuperata chissà dove, il che mi stupì assai. Mi avvicinai, tenuto d'occhio da quei brutti ceffi, intenti a rosicchiare del cibo in piedi. Poi, osservai meglio quella leccornia che emanava un profumo stupendo. Non dimenticare che non mangiavo da giorni. Sulla griglia, posta verticalmente sul fuoco, stavano arrostendo spiedi di topo dalle zampette ritorte e bruciacchiate. Sì, erano proprio carcasse di topo cotte sul fuoco vivo, che poi venivano tagliati verticalmente e, come veri kebab, conditi con salse speziate e serviti nella classica pita. Quasi vomitai alla vista di quell'immondo pasto, quando un omaccione dalla barba ispida come il ferro mi chiese che se volevo mangiare dovevo pagare. Ma con cosa? In quel posto vi era di tutto: dentro ai magazzini abbandonati si poteva trovare alcol, droga, armi e prostitute, ma bisognava pagare. Io non possedevo nulla e visto che il denaro di famiglia che avevo nello zaino non andava più bene neanche per fare del fuoco, ero mal messo. L'essere umano aveva ucciso e rubato per possedere il denaro, e ora non valeva nulla, era morto insieme alla civiltà. L'arabo mi disse che se non possedevo nulla da barattare avrei potuto svolgere dei lavori per loro in cambio di cibo. Quando appresero che ero figlio di un armaiolo e che io stesso ero abile nelle riparazioni, mi misero subito alla prova con degli AK47 con guasti alla leva d'armamento o alle molle dei caricatori. Gli riparai di tutto, dagli AK alle pistole Makarov. Gli tarai a puntino un'ottica di un fucile di precisione Dragunov così bene da mandarli in visibilio, quegli arabi.

Mi fermai con loro tre mesi, provai di tutto. Ero un ragazzo.

E in quei tre mesi mangiai con gusto tonnellate di kebab di topo. La carne era preparata e marinata così bene nelle salse che pareva pollo. Fumai il loro hashish, molto hashish e frequentai le loro meretrici. Poi me ne andai.

Volevano convertirmi a tutti i costi all'islam, così fuggii da quel covo di predoni, ma con qualche rimpianto.”

Meravigliato, il giovane sergente disse: “Certo che da giovane ne hai viste di tutti i colori. Io invece da ragazzino, per fortuna, avevo tutto. Con un padre pezzo grosso della confraternita non poteva essere altrimenti. Spesso, il mio vecchio mi dice che terminata la ferma quinquennale militare entrerò nella classe dirigenziale, dove godrò di ogni lusso. Immaginami già sulla mia auto personale, altro che questi ronzini. Senza dimenticare le donne illimitate e il potere su tutto e su tutti. Niente mense e docce pubbliche, solo ricchezze e proprietà privata.”

E proprio ricchezze e proprietà private stavano spuntando alle spalle delle case fatiscenti e delle baraccopoli. Un enorme cetriolo tecnologico, alto 370 metri, con oltre con oltre 90mila metri quadri, riservati ai manager della confraternita, si ergeva a monito sul popolino sottomesso. Si trattava di un ex grattacielo in 30 st. Mary Axe ed era stato aperto al pubblico il lontano 28 aprile 2004; nel 2005 era stato eletto l'edificio più ammirato al mondo in virtù della sua particolare forma aerodinamica, progettata dall'architetto britannico Norman Foster al fine di evitare le turbolenze d'aria. Prima del collasso tutti i londinesi lo chiamavano familiarmente il “cetriolo” poi l’élite umana postpsico-peste l’aveva ribattezzato Babilon Tower. In origine la società proprietaria dell'edificio era la Swiss-re, un potentissimo gruppo assicurativo svizzero controllato segretamente già all'epoca dai rettiliani. Ma, dopo la psico-peste, la Swiss-re era morta perché non vi era più nulla al mondo che valesse la pena di assicurare e perché la società del benessere era divenuta storia antica.

Il convoglio si fermò al mercato degli schiavi, battuto da un violento acquazzone che cadeva giù dritto e iroso contro i tetti di lamiera dei magazzini. Il cielo, nonostante fosse albeggiato già da un po', si fece nero come la pece, squarciato qua e là da lontani fulmini che riflettevano sulle baracche luci biancastre e inquietanti.

Tutti i carri prigione furono svuotati del loro carico umano sull'asfalto spaccato e martoriato dall'incuria e dall'abbandono, inevitabile conseguenza di trent'anni di caos.

Gli schiavi poco solerti ad alzarsi dal lurido suolo venivano colpiti senza riguardo con i calci dei fucili dei militari. Grazie a questo trattamento d'urto, tutti gli sfortunati abitanti delle terre di nessuno vennero rapidamente radunati e consegnati alla polizia del regno. I tutori dell'ordine, a norma del regio decreto, erano incaricati di imprigionare gli schiavi in apposite celle dove venivano lavati e nutriti e poi venduti all'asta del mercato cittadino a privati o all'amministrazione pubblica per gli impieghi più ingrati.

Questo inumano trattamento non fu certo esteso alle donzelle scelte per divenire le concubine dei potenti della confraternita babilonese. Infatti il carro-prigione che trasportava il prezioso carico proseguì verso la Babilon Tower sotto una pioggia battente e sotto l'occhio vigile di un plotone militare al comando del maggiore Ford e del sergente Castle.

Durante il tragitto costellato da un monocromatico panorama grigiastro il maggiore prese a parlare all’io malinconico che albergava nella sua mente triste: “Abbiamo distrutto un mondo molto migliore di questo surrogato d’inferno, dominato da questi mostri squamosi senza sentimenti. Non potremo mai più entrare in un cinema, gustarci una mostra di quadri o fare shopping in una strada brulicante di vita, nulla sarà come prima. Il mondo del dopo collasso è solo morte, tenebre e tristezza. E noi l'abbiamo preferito a uno fatto di vita, luce e gioia!”

A cosa stai pensando Gregory? Sei così cupo.” borbottò il giovane sergente.

Nulla di importante, stavo pensando alle schiave che consegneremo ai dirigenti. Mi sembrano carine. Dopo che saranno lavate, vestite e truccate negli appositi centri di bellezza per concubine dovrebbero essere ottime per soddisfare i nostri capi, che tanto hanno fatto per salvare la civiltà.” rispose il maggiore occultando l'odio segreto che nutriva per i rettiliani e per quei satrapi umani che, per mantenere i loro privilegi, condividevano con i loro padroni squamosi culti diabolici e sanguinari. Lui stesso aveva sofferto tantissimo quando si era dovuto vendere a quella malvagia genia, ma era un ragazzo solo e affamato in un mondo in cui l'unico ideale era sopravvivere.

Come militare al servizio della confraternita ebbe subito cibo, acqua per lavarsi e la certezza di un giaciglio, un vero lusso in quel mondo regredito allo stato larvale. Ma quei piccoli-grandi privilegi da tempo gli pesavano sulla coscienza sopita come un macigno. I mesi e gli anni passavano, ma il disagio non regrediva, anzi si dilatava a dismisura. Anche l’antica fede che giocoforza aveva rinnegato tornava prepotentemente a bussare alla porta del cuore. Gli mancavano la preghiera e l'intimo colloquio con il signore nel silenzio di una chiesa e poi vi era quel blasfemo marchio a fuoco sul dorso della sua mano sinistra. Un maligno gufo impresso con un ferro rovente nelle sue carni, a simboleggiare Moloch e la sua sottomissione ai rettiliani. Suo malgrado si era dovuto convertire ai sanguinari culti babilonesi o morire spalando sterco come uno dei tanti schiavi che attende con ansia la morte per sfinimento, come una liberazione. Ma lui voleva sopravvivere a tutti i costi perciò si convertì e fece una carriera incredibile nell'esercito. Il suo compito era uccidere i soldati nemici di Nova Urbe e i soldati umani che combattevano i rettiliani; questo era ciò che doveva fare e lo faceva bene. Catturava anche schiavi tra i selvaggi, per poi vederli morire sulla pietra sacrificale o nei cantieri della muraglia di Londra. A questo si era ridotto per un pasto caldo. Com’era caduta in basso l'umanità.

La volta che toccò il fondo come uomo fu quando condusse un attacco ai danni di una piccola comunità di cristiani odiatissimi dai rettiliani. Fu una vergognosa carneficina, un centinaio di innocenti furono uccisi dalle raffiche dei fucili d'assalto, migliaia di proiettili calibro 5,56 si abbatterono sui poveretti martoriando carne, strappando tendini e spaccando ossa. Morirono in modo atroce tra urla, sangue e feci. Tutti crivellati in una chiesa abbandonata ai tempi della psico-peste e successivamente era stata riutilizzata come rifugio e luogo di culto.

La sua coscienza non resse, il peso della colpa era troppo forte anche per un assassino come lui. Quegli ingannatori al servizio dei mostri squamosi lo avevano rovinato per sempre e ora era veramente perduto. Così, in una notte nera come la tenebra balzò sul suo cavallo e uscì dalla città, mentre i suoi sottoposti obbedienti gli aprivano la saracinesca d'acciaio che si spalancava sul nulla. Galoppò a lungo e infine giunse sul luogo maledetto. La chiesa era ancora lì, con la sua atmosfera lugubre e pesante come la colpa. I cadaveri erano stati rimossi, probabilmente da altri disperati, sempre pronti a divorare ogni cosa. Nulla sopravviveva a quei tempi, tutto veniva divorato, corpi e anime comprese.

Il maggiore si guardò nauseato la mano sinistra, sputò con forza sul marchio blasfemo impresso indelebilmente sulla pelle, si segnò e chiese perdono a Dio del gesto estremo. Estrasse la grossa semiautomatica calibro 45, mise il colpo in canna e la diresse verso la tempia destra. Un forte botto e poi sarebbe giunto l'oblio. Tutto sarebbe stato meglio che vivere in quel rimorso ossessionante. Il dito mandò in trazione il grilletto e proprio quando il cane dell'arma stava per esplodere il colpo fatale, una voce lo fermò e gli disse che per espiare delle colpe vi erano dei modi più costruttivi. L'uomo vestito di stracci non era un selvaggio, bensì un magister inquisitionis di Nova Urbe: alto, austero, fisico asciutto e nervoso, con la tonsura nascosta da una pezza avvolta sul capo. Il religioso guerriero era in missione di reclutamento, si chiamava Johannis Giustiniano e cercava un'anima da redimere, una scheggia di luce impazzita da scagliare contro i rettiliani e i loro servi umani.

Da quel giorno il maggiore Ford divenne la quinta colonna di Nova Urbe, una segreta lama di luce piantata nel ventre putrescente dell'oscurità rettiliana.

La chiusura della riunione fu affidata a padre Livio che si soffermò sull'aspetto cospirativo della confraternita babilonese e sulla pericolosità degli appartenenti a questa tentacolare élite di potere diffusa su scala planetaria e infiltrata in ogni luogo di potere.

Dopo le consuete benedizioni il gruppo fu sciolto per la libera uscita.






CAPITOLO 4: FUORI ROTTA

Aktay, Kazakistan. Venerdì 27 agosto 2010. Tempo presente.



L'ora di pranzo era giunta e i quattro uomini decisero di continuare la loro conversazione davanti a del cibo.

Una serie di passerelle tubiformi di plexiglass corazzato e alcuni rilucenti ascensori avevano permesso al gruppo di raggiungere l'edificio amministrativo centrale dell'immenso campus della società italo-kazaka, senza neanche respirare un granello di quelle sabbia rossastra e rovente, proveniente dai deserti polverosi del Kyzylkum al confine con L'Uzbekistan. Una sabbia eternamente generata dalle lande disabitate di un Paese che, con i suoi 2,7 milioni di chilometri quadrati, era al nono posto al mondo per vastità.

Ma al chairman della Project, Mariano Gasperini, poco importava dei 42 gradi che alitavano come il respiro di un titanico forno crematorio sulla città di Akyay, così come non gli importava delle miriadi di emigranti tartari, uzbeki, kirghisi e mongoli che morivano come mosche nelle miniere di ferro del bacino di Kustanaj o negli impianti di trivellazione petrolifera del mar Caspio. Senza dimenticare l'inflazione esponenziale, che rendeva carta straccia la moneta locale, il tenge, e senza dimenticare la corruzione endemica, la fuga della manodopera specializzata russa, il presidente che, con mandato a vita, regnava come un antico mandarino e la privatizzazione pantagruelica che fagocitava tutto. Dalle centrali nucleari alle reti televisive passando per le attività minerarie, insomma un vero terrestre per l'élite estera di potere che aveva acquistato il 90% delle risorse statali. Tutto questo non turbava i pensieri del dottor Gasperini. L'importante era invece far capire ai suoi nuovi acquisti che l'umanità era giunta a un bivio che avrebbe determinato eventi in grado di influenzare il pianeta sia nel presente sia nel futuro. Non era cosa facile far assimilare ai suoi contractors che una razza non umana manipolava gli eventi storici dai tempi delle civiltà mesopotamiche. Ma quello che avevano visto nella Berlino del 20 aprile del 1945, poteva aprire loro la mente.

La spaziosa sala da pranzo, riservata ai pezzi grossi, era stata trasformata in un corposo buffet in modo da evitare che i camerieri udissero le conversazioni segrete che si sarebbero tenute quel giorno. Altra novità del giorno erano gli ospiti che avrebbero partecipato a quel pranzo: niente top manager o industriali, bensì tre uomini d'armi.

Figlioli, vi presento alcuni dei più importanti collaboratori che hanno contribuito al nostro successo.” L'esordio fu secco e deciso: visti gli argomenti da trattare mister Gasperini non ammetteva più nessun bizantinismo lessicale. “In senso orario vi presento il fisico Vadim Chernobrov, la mente primaria della cronomacchina.”

Dal grande tavolo ovale, al cospetto di almeno sei piatti già divorati, si alzò un uomo molto robusto che assomigliava all'attore Peter Ustinov nella sua magistrale interpretazione di Nerone. Stessa corporatura, stessa barba e occhi intelligenti incorniciati in un viso bonario. L’uomo salutò i tre mercenari con una stretta di mano genuina e forte.

Ora passo a presentarvi padre Livio Gonzaga, dottore in teologia e filosofia, direttore dell'emittente cattolica più ascoltata al mondo e direttore spirituale del nostro progetto.”

Anch'egli si alzò salutando gli ospiti con un ampio sorriso. Aveva circa 70 anni, ma ne mostrava dieci di meno, con candidi capelli corti e ordinati che spiccavano sulla tonaca nera. Uno sguardo sereno e limpido che colpì subito i presenti.

L'ultimo nostro collaboratore, che ci sarà molto utile per far luce sull'occulta ingerenza che purtroppo ammorba l'umanità, è il magister inquisitionis Giustiniano.”

Si alzò in piedi un uomo molto alto, sicuramente oltre il metro e novanta. Viso scavato, corporatura asciutta, tonsura da domenicano e abito monacale bianco con cappa nera e cappuccio tirato sul capo. Colpivano i suoi occhi, puro abisso color ghiaccio, uniti al portamento classico di chi è abituato al comando. Lo strano frate salutò con un cenno del capo e impartì loro una benedizione con la mano destra, segnando nell'aria un'immaginaria croce.



Il comandante dei mercenari, DOC, ignorò il buffet e, mentre i suoi due colleghi, che già si erano riempiti i piatti di caviale e tartine, continuavano a ingozzarsi, chiese educatamente: “Chiedo scusa a tutti, ma nonostante la mia discreta cultura storica e la mia stima per Domenico Guzman, fondatore dell'ordine dei domenicani, sono certo che l'inquisizione fu creata durante il concilio di Verona del 1184 da papa Lucio III e fu rinominata “congregazione del Santo Uffizio” nel 1908, dove perse ogni sua antica caratteristica. Quindi, cosa ci fa qui, oggi, nel Kazakistan un inquisitore?? Sono in errore o qualcosa mi sfugge??”

Mariano Gasperini, sorridendo con aria sorniona, guardò ammirato il volto di Marco Sforza, poi gettò uno sguardo sugli altri due contractors, ormai totalmente assorbiti dalle prelibatezze gastronomiche, scosse il capo, e infine rispose: “Caro signor Sforza, ora capiamo perché il suo nome di battaglia è DOC. Evidentemente lei deve essere un eclettico “doctor” in svariati rami del sapere. Comunque mi permetta di iniziare a parlare del perchè abbiamo costruito qui ad Aktay un campus segreto dedicato ai cronoviaggi. Vede, noi volevamo costruire una macchina del tempo per condurre ricerche di ordine religioso e soddisfare certe richieste dei nostri generosi finanziatori.

L'Opus Dei vedeva, per la prima volta, dal 2 ottobre 1928, data della sua fondazione, la possibilità di studiare in loco avvenimenti storico-religiosi importantissimi per la cristianità intera. Immagini di poter viaggiare nel tempo e assistere sul Golgota alla passione di nostro signore Gesù Cristo e studiare gli eventi nella Palestina romana determinati da Ponzio Pilato. Respirare quell'aria, quei momenti eterni sino alla resurrezione del Salvatore. Oppure retrocedere nelle ere, sino a presenziare alla creazione o avanzare attraverso le pieghe del tempo sino a giungere al giorno dell'apocalisse per assistere al combattimento finale della donna vestita di luce che schiaccia la testa del falso profeta.”

Il volto di Gasperini, madido di sudore, realmente anelava l'utilizzo della crono tecnica per esplorare i misteri della fede, ma sembrava mosso da un sentimento che rasentava l'esaltazione mistica. Ripresosi dalla vampata di calore che gli aveva imporporato le gote, inconsciamente si toccò la catenella con le punte di ferro ben serrata alla gamba destra e celata dal suo lussuoso completo, e proseguì: “Ora, voglio che vi sia ben chiaro che tutta questa fantascientifica struttura è esclusiva opera dell'Opus Dei. La società italo-kazaka Project non è altro che un paravento, come penso che qualcuno di voi abbia già intuito.”

Senz'altro Luis Freitas era più interessato a nutrire i suoi 120 chili di muscoli stile gangsta-rap che ad ascoltare tutti quei discorsi astrusi, mentre Branko Radic mangiava, e soprattutto beveva, ma capiva tutto. Sicuramente non era interessato ad altro che al contratto da sogno che aveva firmato. Soldi, gioielli, auto da sogno e un esercito di dolci donzelle era tutto ciò che necessitava. Per il croato le chiacchiere erano un contorno.

Al contrario Marco Sforza continuava a osservare i marmi bianchi e neri a losanga che componevano il pavimento della sala da pranzo: in ogni lastra era incastonato un piccolo asinello d'oro massiccio. Così come le posate, i piatti e i coltelli, anch'esse d'oro, tutte istoriate col medesimo simbolo. L’attenzione di DOC si concentrò poi su una grossa lamina d'oro bianca posta in alto sulla parete principale, su cui era incisa questa frase:



PIU' LUMINOSA DELL'ALBA, SERENA COME LA LUNA, BRILLANTE COME IL SOLE E TERRIBILE COME UN ESERCITO CON LE INSEGNE SPIEGATE.



Atteggiandosi un poco da uomo acculturato, il comandante dei mercenari disse: “Dottor Gasperini e cari signori, come non potevo non notare l'asinello, così caro all'Opus Dei, o opera, come voi membri amate chiamarla.

La cavalcatura che condusse Gesù a Gerusalemme ma anche la croce racchiusa da un cerchio, che ho visto incisa sui gemelli di alcuni dei presenti, e che simboleggia la santificazione del mondo dall'interno. Ho apprezzato infine il brano inciso su lastra, tratto dal “camino”, il capolavoro di San Escrivà e scritto a Madrid nel 1939. Una raccolta di 999 massime di saggezza spirituale, che sarebbero poi diventate il testo fondamentale dell'Opus Dei.”

Padre Livio Gonzaga posò il suo bicchiere di buon vino rosso italiano e le fette di prosciutto sul piatto, si avvicinò a Sforza e ridendo di gusto disse: “Signor Sforza non è che lei ha sbagliato mestiere e invece del mercenario avrebbe dovuto entrare alla pontificia università gregoriana e studiare teologia? Lei è molto diverso dai suoi.”

Lo sguardo del sacerdote indugiò per qualche secondo sul croato con la faccia da rapinatore e sul gigante dalla pelle color petrolio, un'epidermide ormai ridotta a un groviglio di tatuaggi simili a stendardi adatti all'apoteosi di uno spacciatore da strada.

Marco Sforza rispose sorridendo: “Padre Livio, lei mi lusinga. Ma la mia anima è troppo nera per la teologia. Troppi morti, troppe guerre a tassametro, troppa cordite, napalm, schegge e paesaggi ridotti a ossari.”

Padre Livio non si scandalizzò e non perse il suo sorriso luminoso: “Ragazzo mio, devi sapere che Dio è più vicino a te di quanto lo sia la tua arteria femorale. Quello che stai facendo per l'umanità ti redimerà agli occhi del Signore. Non temere, la tua conversione arriverà, ne sono certo.”

Permettetemi di procedere signori, grazie.” Gasperini, un soprannumerario dell'opera nonché numero uno della Project, non voleva assolutamente far raffreddare l'argomentazione tecnica, perciò, un po’ contrariato, proseguì: “Come dicevo, con enormi sforzi l'opera riuscì segretamente a costruire la crono-macchina, qui in Kazakistan. Dopo vari esperimenti condotti con sonde e altre macchine per rilevamenti, procedemmo con le persone ottenendo grandi successi. Quindi decidemmo di inviare il nostro padre Livio, quattro storici e cinque poliziotti di scorta, tutta gente legata all'opera, nella Roma imperiale ai tempi delle persecuzioni neroniane contro i cristiani. Il gruppo doveva condurre importanti studi sulle catacombe, e più precisamente su alcune reliquie sacre successivamente andate perdute.

Ovviamente il nostro personale addetto alla scorta partì disarmato e rigorosamente abbigliato con vestiari in uso in quel periodo storico. Nulla doveva alterare quella linea temporale, quindi cercammo di tenere un profilo a basso impatto nei confronti dello spazio e del tempo che ci avrebbe ospitato. Il punto di partenza fu chiaramente qui in Kazakistan, mentre quello di arrivo doveva essere, spazio: Roma, tempo: ore 10,30 del giorno 3 agosto dell'anno 64 dopo Cristo. Ho detto “doveva”, perché vi fu un piccolissimo errore di calcolo del VGL, il sistema dell'unità di viaggio che calcola la rotta spaziotemporale. Difetto ora completamente risolto. Ma allora, il 21 dicembre 2008, la rotta calcolata era parzialmente errata. Le coordinate spaziali erano esatte, ma quelle temporali completamente sbagliate e, invece di giungere nella capitale dell'impero, i nostri uomini finirono nella Roma del futuro, quella del 16 aprile del 2088, o meglio, in ciò che ne rimaneva.”

Gasperini controllò il suo cronografo Jaeger-Le coultre d'oro bianco e aggiunse: “A questo punto, cedo la parola a padre Livio, testimone diretto del fuori rotta.”

Padre Livio Gonzaga congiunse la mani e inspirò profondamente, come per cercare le parole giuste, poi voltandosi verso i tre contractors disse: “Cari amici, cercherò di essere breve. Come ha detto il dottor Mariano, ero a capo del gruppo di studiosi interessati ad alcune importanti ricerche sulla storia cristiana e in particolare al periodo storico in cui l'imperatore Nerone scatenò tutto il suo odio nei confronti dei cristiani, con persecuzioni di inaudita ferocia. Quando giungemmo in quella che doveva essere la Roma dei cesari, non trovammo nessuna traccia di quella civiltà. Niente terme, niente anfiteatri, niente senato. Tutto svanito. Al loro posto notammo palazzi devastati e strade invase da scheletri di metallo divorato dagli elementi che un tempo dovevavo essere automobili. Ovunque ruotassimo i nostri sguardi, essi si perdevano in un'apoteosi di strutture abbandonate: supermercati, ponti, stazioni ferroviarie, pali elettrici simili a totem deformi conficcati nella nuda terra dove l'asfalto era stato divelto da tempo. Tutto vuoto, tutto morto. Una città fatta di rovi, erbacce, detriti e rottami. Noi eravamo finiti proprio in mezzo a un parcheggio devastato, un piazzale ridotto a discarica e conquistato dalla polvere, dalla morte e dal tempo del dopo disastro. Non ci volle molto al nostro gruppo di ricerca per capire che eravamo finiti fuori rotta. Al posto dei marmi imperiali, trovammo un mondo morto. Dai resti di quella necropoli, capimmo che le auto corrose dalla ruggine, i palazzi devastati dall'abbandono, le strade piene di detriti, sterpi e solchi simili a mortali cicatrici erano i palesi sintomi del collasso della civiltà moderna.

Presto, anche quelle piccole tracce di civiltà sarebbero state seppellite dalla polvere e inghiottite dalla terra. Così come si estinsero i dinosauri, pensammo, si sono estinti gli uomini.

Ma ci sbagliavamo. A qualche centinaio di metri da noi udimmo uno scalpiccio e dei nitriti. Forse eravamo salvi, forse gli uomini non si erano estinti.

Una ventina di uomini a cavallo sbucò da una collinetta di macerie di calcestruzzo e di vecchi pezzi di intonaco. Avevano un aspetto terrificante e grottesco. Erano vestiti nella maniera più disparata: alcuni portavano caffettani dai colori indefinibili, chiazzati di urina e altri liquidi organici di dubbia natura, mentre altri indossavano vecchie mimetiche di chissà quale esercito tramontato e risorto nelle nuove guerre di razzia.

Scesero da cavallo urlando oscenità. Notai che almeno quattro di quei pazzi indossavano abiti da donna, dai colori sgargianti e lunghi fino ai piedi. Non portavano le scarpe e i loro piedi erano lerci come i loro corpi. Il loro fetore, il loro modo di camminare e le loro armi che avevano ci terrorizzavano. Notai che avevano con sé mazze di legno da cui sporgevano chiodi di ferro appuntiti lunghi un palmo. Armi rozze e primitive che avrebbero potuto demolire tendini, devastare ossa e spaccare crani.

Altri scalmanati ci circondarono, puntandoci contro vecchie doppiette da caccia, qualche pistola e molti machete ancora con la lama inchiostrata di sangue rappreso.

I loro volti sporchi incorniciavano denti marci e occhi animaleschi. Ridevano e urlavano cose senza senso. Mi bastarono poche parole, afferrate qui e là in un idioma-non-idioma, fatto di termini latini, italiani e arabi, quasi un Sibir diffuso nei porti del Mediterraneo del '600, per capire che erano attratti dalle nostre tuniche romane di prezioso broccato, quindi ci spogliammo e consegnammo i nostri abiti, rimanendo letteralmente in mutande.

Forse quella banda di predoni si sarebbe accontentata delle nostre pretenziose vesti, o forse no. Appena videro il corpo grasso e tondo del nostro medico, reso più appetibile della sua nudità, emisero urla di gioia dall'orrendo significato. Intuii subito che quella banda di canaglie era dedita al cannibalismo. L'uomo era regredito a quel punto?? Sì lo era, in seguito sapemmo che la penuria di viveri aveva spinto questi gruppi di razziatori a cacciare esseri umani per derubarli e per mangiarli.

Quel mondo primitivo affogato nella violenza costrinse i miei uomini a reagire, così i cinque addetti alla sicurezza tentarono di assaltare l'orda piratesca, ma purtroppo furono abbattuti all'istante a colpi di doppietta e di pistola. Ricordo bene che alcuni grumi gocciolanti, provenienti dal cranio perforato di una delle nostre guardia, mi schizzò in pieno viso. Fu terribile, tanta inutile e ancestrale brutalità. Pensammo che l'ora di tornare dal padre celeste fosse giunta, ci segnammo e guardammo il cielo per l'ultima volta. Sicuramente sarebbe giunto il colpo ferale di machete, una coltellata, o un proiettile di pistola, e poi saremmo stati divorati da quegli esseri regrediti a cani randagi e affamati.

Ma quell'attesa mortale si congelò. Il forte rumore sferragliante di un cingolato fece voltare la banda di ladri-cannibali che, quasi impazziti dal terrore, in un baleno saltarono in sella sui loro ronzini per allontanarsi, ma tre mezzi blindati e cingolati per il trasporto truppe si lanciarono al loro inseguimento. Dai mezzi blindati partirono numerose raffiche di mitragliatrici pesanti, seguite da altre di mitra. Subito dopo dei soldati, di chissà quale esercito, balzarono giù dai blindati e finirono a colpi di fucile i predoni.

Niente prigionieri. Solo un’estesa pozza di sangue che sembrò ingoiare quella ventina di canaglie. La mia attenzione si polarizzò sulle scritte poste sulle fiancate verde oliva dei mezzi cingolati che trasportavano i soldati. La scritta, in vernice gialla, esclamava “Legio nova invicta”. Anche le loro mimetiche, chiazzate di verde e marrone, recavano alamari e frasi inneggianti a quella legione. Il suo simbolo era cucito sulla spalla destra delle uniformi e mi colpì molto, si trattava, di una croce cristiana posta su due fucili mitragliatori incrociati.

Una trentina di soldati perfettamente equipaggiati si avvicinò a noi con le armi spianate. Un loro graduato ci disse brusco di rivestirci immediatamente. Non potevo credere alle mie orecchie, parlavano in latino: non solo l'ufficiale, ma tutti i soldati. A quel punto ci rivestimmo, notando che la nudità era fonte di forte fastidio per loro e, poiché io parlo latino correntemente, osai chiedere spiegazioni.

L'inizio non fu dei migliori, ci volevano fucilare come spie di una misteriosa razza nemica che poi in seguito capii essere quella rettiliana. Con calma, spiegai loro di essere un sacerdote e di venire dal passato e che tutti i miei collaboratori erano membri laici dell'Opus Dei.

Vidi subito che le mie parole fecero effetto sull'ufficiale, così insistetti per conferire con un religioso, invocai spesso il nome del Signore e chiesi l'intervento illuminante dello spirito santo su tutti i militari.

Gli uomini della “legio nova invicta” chiamarono un'autorità religiosa tramite le radio tattiche che avevano sui mezzi. Dopo quasi un'ora d'attesa, sempre in piedi e sotto il tiro dei loro mitragliatori, giunse un fuoristrada militare telonato. L'autista frenò e in una nuvola di polvere scese un uomo molto alto e asciutto. Indossava una mimetica completamente nera con tanto di anfibi e cinturone con pistola dello stesso colore. Ma quello che mi destabilizzò fu che l'uomo, dal profilo rapace, portava la tonsura come un frate e che sulla manica destra portava una croce nodosa cristiana decorata in argento e con una spada sul lato destro.

Era l'antico simbolo della santa inquisizione.

L'uomo mi disse in tono molto burbero e in perfetto latino di essere un “magister inquisitionis” e che noi eravamo prigionieri di Nova Urbe, dove saremmo stati condotti e interrogati.

Quell'uomo, con i simboli dell'inquisizione cuciti sulla mimetica, era ed è il qui presente Giustiniano Johannis, oggi ovviamente non in tenuta operativa. Passo a lui la parola, grazie.”

I tre mercenari guardarono quella figura slanciata che ora si era eretta in mezzo alla sala, come un faro nella notte. Tutta la sua persona era un fascio di nervi e nonostante il saio domenicano che lo avvolgeva dalla testa ai piedi, si notava facilmente il suo portamento atletico, così simile a quello di un predatore. Anche i suoi occhi e il suo profilo sottolineavano un aspetto scaltro e felino. Ma Marco Sforza, bloccò subito l'intervento del religioso venuto da quell'orribile futuro, dicendo: “Mi perdoni padre Giustiniano, se ho compreso il racconto di padre Livio, lei è un inquisitore dell'anno 2088. Ciò significa che l'umanità invece di progredire ha subito un'involuzione in puro stile medioevale. O sbaglio ?”

L'inquisitore incenerì con lo sguardo il comandante dei mercenari, poi disse con una calma glaciale da mettere i brividi e in un italiano dal forte accanto latino: “Magister militum Marcus, non si creda di impressionarmi con il suo curriculum bellico.” Aveva usato un antico termine che significava “capo dei militari”, visto che spesso Giustiniano infarciva l'italiano con termini latini.

Io stesso non ho esitato a combattere contro tutti i nemici della fede. Ho sparso sangue rettiliano nella battaglia di Londra e ho condannato al rogo molti eretici e blasfemi dalla vergognosa condotta morale. Quindi, come avrà certamente capito, a Nova Urbe noi inquisitori e i “famigli”, cioè i nostri collaboratori laici, giriamo sempre armati e tutti abbiamo ricevuto un intenso addestramento militare. Purtroppo, o per fortuna, non saprei, il vostro mondo, che così facilmente ha ceduto alla seduzione satanica dei rettiliani, è collassato il 20 aprile del 2058.

Finito, terminato, estinto.

La vostra società ne ha prodotta un'altra, nuova e migliore, Nova Urbe.

Il vostro tempo è scaduto, la vostra partita terminata e defunta. Le generazioni dopo le vostre si sono scervellate per comprendere le colpe del collasso, per capire perché il vostro perfetto mondo si sia estinto e la risposta è semplice. La colpa è vostra perché i rettiliani si sono occultati tra voi per millenni e vi hanno usato come animali da cortile. Hanno usato il vostro pianeta come un immondezzaio aperto a tutte le scorie e a tutti gli esperimenti. Vi hanno manipolato come marionette, vi hanno spinti all'odio reciproco e a guerre senza senso e hanno sfruttato le vostre risorse con l'antico metodo del “dividi et impera”.

Sapete perché è potuto accadere tutto questo?

Perché siete avidi e i rettiliani e i loro servi umani della confraternita babilonese lo sapevano molto bene. Mai sottovalutare l'avidità delle masse: soldi, potere, sete di mondo. Questo vi ha spazzato via dalla faccia della terra.

Dalla cenere della vostra società marcia è sorta Nova Urbe, una città-Stato sotterranea esempio di moralità, retta dalla legge di Dio e dal suo vicario in Terra, il santo Papa. Questa è la civiltà nuova, la struttura successiva sulla scala evolutiva, quella che meglio è riuscita ad adattarsi all'ambiente ostile da voi lasciato. Nova Urbe è una teocrazia che ha conservato la cultura, la scienza e l'arte. Subito dopo il collasso, quando la psico-peste provocata dal più grande tentativo a livello planetario operato dai rettiliani e dai loro soci umani per manipolare la coscienza della popolazione mondiale falciò 20 milioni di vite umane nelle sole prime 24 ore del disastro, noi già stavamo gettando le basi di una città sotterranea. Un luogo su questa terra, ormai sconvolta dalla pazzia, in cui l'uomo avrebbe potuto vivere da essere umano e non da bestia dedita al cannibalismo. Perché così si ridussero i sopravvissuti, umani divenuti selvaggi, primitive creature razzolanti in una Roma abbandonata e deserta. Niente più fontana di Trevi, niente più piazza Navona, niente più civiltà, solo polvere, edifici diroccati e devastazione totale. Niente ospedali, niente acqua, niente corrente elettrica, nessun tessuto sociale era sopravvissuto in tutto il mondo. La follia omicida trasformò la Terra in un mattatoio a cielo aperto e gli impazziti, mossi da una furia assassina senza limiti, scatenarono le loro pulsioni per mesi e mesi.

All'improvviso, tutti, sani e folli, videro i rettiliani, come se un arcano velo che impediva di vedere fosse stato improvvisamente strappato.

Fu uno shock nello shock scoprire che quegli esseri lacertiformi dalla struttura umanoide erano sempre vissuti tra gli uomini. Tale scoperta scosse in modo definitivo la coscienza degli ultimi umani sopravvissuti.

Veri figli del falsario che da millenni, come parassiti, si erano infiltrati nel tessuto sociale umano allo scopo di manovrarlo a loro piacimento.

Pochi che comandavano tanti. Voi stessi ne avete visto un esemplare nella Berlino del 1945. Quindi immaginate lo smarrimento in cui caddero gli umani quando videro quegli esseri, ormai privi del loro potere di assumere forme umane, fuggire tra palazzi saccheggiati e stazioni ferroviarie devastate dagli incendi. Noi sopravvissuti alla psico-peste di Roma li uccidemmo tutti, dandogli la caccia in ogni nascondiglio della città travolta dalla follia. Io avevo dodici anni allora, e in poche ore ero rimasto orfano: mio padre aveva ucciso mia madre sfondandole il cranio con una mannaia da macellaio. Così fuggii da quell'uomo a cui le onde HAARP avevano divorato il cervello, riducendolo in un colabrodo. Era una sorta di encefalopatia generata da onde così maledettamente simili a quelle emesse dal nostro cervello e che avevano alterato in modo misterioso la mente di un’ampia parte della popolazione che impazzì, uccidendo o uccidendosi. O entrambe le cose, come successe a mio padre e al 90% degli abitanti di Roma e del mondo.

Ma, grazie a Dio, la nostra salvezza venne dalla Chiesa. In Vaticano, i casi di psico-peste, come prese a chiamarla la gente comune, non superarono il 25%. Così molti sacerdoti salvarono gli orfani come me e le persone sopravvissute. Furono proprio i religiosi a condurre il popolo al sicuro all'interno delle antiche catacombe. All'inizio la vita fu durissima, fatta di stenti e giacigli di fortuna, ma alla lunga la capacità organizzativa della Chiesa riemerse. Ci venne insegnato come sopravvivere, nutrirci e costruire sottoterra. In pochi anni la città di Nova Urbe emise i primi vagiti: case, aree coltivabili, allevamenti, generatori elettrici e strade sotterranee ci permisero di espanderci e prosperare nel sottosuolo.

Accogliemmo a braccia aperte gli intellettuali provenienti da tutta l'Italia e da molti stati della defunta Europa. Mentre nel mondo di superficie, il sapere e i suoi araldi stavano affrontando l'imminente estinzione, Nova Urbe apriva scuole, asili e università. Presto, grazie alla teocrazia cattolica ottenemmo un aumento demografico spettacolare, con un vero tessuto sociale funzionante in tutte le sue parti. Attualmente, disponiamo anche una parte della tecnologia del passato, ma non ne siamo schiavi, ed essa è utilizzata principalmente per usi militari, dato che siamo in guerra da trent'anni con i rettiliani.”

Johannis Giustiniano fece una pausa a effetto. Ma l'attenzione dei contractors era già tutta per quel prete guerriero che con estrema facilità passava dalla Bibbia alla Berretta calibro 9 “made in Nova Urbe”.

Il brasiliano Luis Freitas, detto Voodù, osò: “Padre Giustiniano, vorrei conoscere il vostro livello d'armamento, sono molto curioso.”

Il Magister si sfiorò la tonsura imperlata di sudore: pativa particolarmente il caldo, anche se i climatizzatori presenti nella struttura avevano abbassato la temperatura interna a 15 gradi, contro la mostruosa calura esterna che ne sfiorava i 42.

Dopo un attimo di pausa riflessiva, il religioso venuto dal futuro guardò negli occhi l'enorme uomo nero vestito come uno spacciatore di crack, ma nel suo sguardo non era presente nessun tipo di pregiudizio. Da guerriero a guerriero, da alleato ad alleato. Poi disse: “Vede “primus pilus” Freitas, noi di Nova Urbe, fin dai primi mesi del dopo collasso, mandammo alcuni nostri uomini in esplorazione sulla superficie alla ricerca di basi militari abbandonate. Ne trovammo molte, l'Italia era piena di antichi siti Nato. Molti poligoni dell'esercito erano stracolmi di armi leggere, bombe e anche qualche missile spalleggiabile. Presto tornammo nella nostra città sotterranea armati fino ai denti: pistole Beretta, M16, Ar70, kalashnikov, M60, blindati centauro, fuoristrada, munizioni, logistica militare, fornitura medica e carburante. Dopodiché chiedemmo ai nostri ingegneri e studiosi, che con tanto ardore avevano conservato le ultime scintille dell'antico sapere, di portare avanti un progetto di retro-ingegneria. Essi non ci delusero e, basandosi sui molti schemi e disegni rinvenuti in superficie, riuscirono nell'impresa. Attualmente secondo la nostra linea temporale, nel 2088, produciamo ottime pistole calibro 9, mitragliatori, mortai, fucili di precisione, bombe a mano, trasporto truppe blindate e altri articoli militari. Insomma, a parte l'aviazione che è fuori dalla nostra portata, abbiamo una discreta industria bellica.”

Il brasiliano non capì certo che “primus pilus” significava prima lancia, ovvero ufficiale esperto, però comprese il quadro generale dell'esposizione, così aggiunse: “Una discreta industria militare, un buon esercito, tutte cose utili, ma a quanto pare non sufficienti a vincere la guerra contro i rettiliani che purtroppo infestano anche il nostro presente.”

Vedo che ha compreso in pieno. Quelle creature infernali sembrano sempre sul punto di soccombere, ma sono trent'anni che ci tengono testa. Abbiamo tentato anche di invadere il loro insediamento più grande, il regno anglo-rettiliano di Londra. Una battaglia epocale. Può immaginare cosa ci sia costato in mezzi rimettere in sesto una antica flotta navale che giaceva abbandonata nei porti Taranto, Brindisi, Napoli e Spezia. Abbiamo rimesso a punto e revisionato quei vecchi navigli e poi siamo sbarcati sul suolo inglese. Un’impresa immane per i nostri tempi.

È mancato poco che la città di Londra, difesa da un'imponente muraglia, cadesse in mano nostra, ma fu proprio il coraggio dei loro servi umani a causarci gravi perdite e alla fine togliemmo l'assedio. Da allora sono passati due anni e la guerra si è arenata, i nostri timori sono che un giorno nefasto Nova Urbe possa cadere in mano ai rettiliani e ai diabolici alleati che si accomunano a loro per l'insana fede in antichi e sanguinari culti babilonesi. Quindi, una caduta della nostra città sotterranea significherebbe immancabilmente la sconfitta definitiva dell'Homo sapiens libero e non asservito agli abomini. E naturalmente la fine di ogni tradizione umana e cristiana. L'uomo giungerebbe alla sua conclusione terrena in favore di una razza che si nutre di odio e malvagità. Forse, per giungere a questa drammatica parabola discendente del genere umano, ci vorranno magari dieci o cent'anni, ma il rischio non cambia.

Io le chiedo, è forse gusto lasciare il nostro mondo, la nostra sacra Terra a esseri giunti da chissà dove e a un pugno di uomini che di umano non hanno più niente ?

Sono certo che è stato Dio a mandarvi, fratelli dell'anno 2010, a noi uomini così provati del 2088. Perché la Beata Vergine Maria ha portato in grembo Gesù, figlio di Dio, un uomo fatto a immagine e somiglianza del padre, non un maledetto rettile!! Semmai, questi ultimi possiamo dire che siano immagine e somiglianza del maligno, l'eterno nemico dell'uomo, il serpente ingannatore.”

L'uomo venuto dal futuro fece un'altra potente pausa a effetto, poi riprese a tuonare.

Dunque, volete voi battervi contro il nemico che infesta la Terra in ogni luogo e in ogni tempo??”

Il brasiliano praticava la magia per combattere il male e la considerava come una sorta di forza speciale al servizio del bene, perciò rispose deciso: “Magister Giustiniano, a Berlino abbiamo visto putrefarsi sotto i nostri occhi uno di quegli esseri immondi e le posso confermare che era l'essenza del male. Quindi, credo di parlare anche per i miei due soci, non avremo nessun rimorso a spedire all'inferno quei parassiti!!”

Bravi figlioli.” replicò glaciale il prete guerriero. Inspirò a lungo, poi continuò: “Non hanno anima quei mostri, figli dell'omicida fin dal principio.

Al contrario, i loro servi umani della confraternita babilonese avevano un'anima, ma l'hanno persa dannandosi per l'eternità quando hanno deciso di servire i figli del falsario.

Quindi, ucciderli per liberare il mondo di oggi e di domani non è un peccato!! Anzi, è un merito agli occhi del Signore!!”

Tre uomini, tre reazioni.

Nel cuore del brasiliano divampò come un incendio una fede già presente e radicata nel suo retaggio culturale. Un duro, un gigante dalla pelle nera e dall'aspetto poco raccomandabile, ma pronto più a combattere per un fine spirituale che per denaro.

L'italiano, il capo guerra, il “doctor” del gruppo mercenario era felice di accettare la sfida contro forze nemiche insidiose. Ed era felice anche di intascarsi una somma da capogiro. Avrebbe voluto riuscire a credere alla guerra contro il male, ma la sua anima era ancora tormentata da brutti ricordi. Così lontane erano l'assoluzione e la resurrezione come lo era il perdono che anelava.

Il croato, ex rapinatore messo in riga dalla legione straniera, leale ma sempre rapace, venerava i soldi e la Project nella misura in cui poteva scucirgliene tantissimi, quindi lunga vita alla guerra, ai mercenari e alla morte. Avrebbe combattuto ovunque e contro chiunque, e per quello stipendio iperbolico era disposto ad andare a prendere a calci Satana all'inferno.

Marco Sforza riportò la riunione sul piano tecnico: “Magister Giustiniano, se la Project, nostro graditissimo cliente, vuole che noi contractors della K-group vi supportiamo in questa guerra, necessito di qualche dato in più. Quindi, necessito che riprenda la descrizione dal momento in cui padre Livio e la sua squadra di studiosi furono arrestati da lei.”

L'inquisitore annuì dicendo: “Il resto del racconto è molto semplice: li caricammo sui blindati e li scortammo fino a Nova Urbe e dato che non eravamo molto lontani da un ingresso di superficie, dopo poco il nostro convoglio armato si avvicinò a uno degli accessi della città sotterranea.

Una grossa barriera pneumatica a saracinesca, scavata in una minicollina di cemento armato, fu aperta dall'interno. I militari del nostro presidio ricevettero il codice d'accesso via radio e dal pannello di controllo diedero gli imput elettrici che sbloccarono i meccanismi di ancoraggio. La saracinesca si sollevò ed entrammo con i blindati all'interno della struttura artificiale, da cui io, la scorta e i prigionieri prendemmo la scala mobile che conduce in profondità. Mi identificai al posto di blocco della polizia ed entrammo così in città. Ovviamente un magister inquisitionis non prende la “strada celere”, cioè il mezzo di trasporto pubblico di Nova Urbe, ma utilizza i mezzi della polizia cittadina e si fa scortare fino alla sede centrale della santa inquisizione. Noi delle autorità pubbliche siamo gli unici a girare liberamente in città, con auto e furgoni elettrici. I mezzi a benzina vengono utilizzati solo all'esterno e dai militari. Tornando ai nostri eventi, posso dirle semplicemente che nei nostri uffici interrogammo i prigionieri. Di norma in questi casi si passa direttamente alle “questiones”, cioè la tortura regolata e leggera, ma visto che i sospetti parlavano tutti la nostra lingua nazionale, il latino, ed erano in possesso di conoscenze teologiche non comuni, evitai la procedura. Considerando che i prigionieri si dichiararono membri dell'Opus Dei, che nella nostra città gestisce l'archivio di stato e i servizi segreti, mi è bastato controllare i loro nomi sul sistema riservato agli apparati di sicurezza interna, da noi chiamato “Internos”. Ebbene, dalla ricerca incredibilmente emerse che padre Livio Gonzaga e la sua squadra erano “opusiani” dei tempi passati. Quindi, grazie all'impegno del Vaticano, che era riuscito a salvare tutti gli archivi telematici inerenti al mondo religioso del prepsico-peste, potemmo identificare con certezza queste persone. Scoprii anche un dettaglio che avevo dimenticato da tempo: in memoria di padre Livio era stata dedicata una statua in una delle piazze più belle di Nova Urbe, piazza Regina della pace. Avevo davanti ai miei occhi in carne e ossa il più grande predicatore del passato. L'uomo che aveva potato via etere la parola della madre del Signore in milioni di case di tutto il mondo, una leggenda di evangelizzazione per la nostra città. Quindi, dopo aver escluso che l'anomala presenza del gruppo fosse opera di un inganno rettiliano o diabolico, dovetti accettare per forza di cose l'idea che padre Livio e i suoi collaboratori provenissero dal passato.

Contattai immediatamente il Santo Papa, Pietro II, il quale ci ricevette la sera stessa e, dopo un'attenta e illuminata visione, sua santità confermò che la venuta a noi di una delegazione dellOpus Dei proveniente dall'anno 2010 fosse un inequivocabile segno divino.

Sapevamo che la causa effettiva era un errore di calcolo della loro macchina del tempo. Ma nulla avviene per caso, così decidemmo che un'alleanza tra fratelli in Cristo e simili della stessa razza, anche se di due epoche diverse, avrebbe potuto essere utile a tutte e due le linee temporali, la nostra e la vostra. Noi potevamo passarvi tutte le informazioni sui rettiliani e sul loro modo di occultarsi tra gli umani e voi potevate aiutarci a fermare quegli esseri squamosi.

Due guerre diverse, due ere diverse, ma un unico nemico.

Il figlio del demonio contro il figlio di Dio.

Noi uomini contro loro rettiliani.

Così, con la piena autorizzazione di sua santità, papa Pietro II, partii con i nuovi alleati provenienti dal passato come ambasciatore di Nova Urbe.”



La riunione si protrasse per altre due ore, durante le quali il fisico Vadim Chernobrov si esibì in tediosi e inutili dati sulla fisica quantistica, sul ponte Einstein-Rosen, sui cunicoli di tarlo quantico e su una miriade di dettagli relativi alle varie componenti della crono-macchina, con l'ovvio risultato di annoiare a morte i mercenari. Poi toccò a Gasperini, il quale dovette gestire tutte le pratiche contrattuali tra la New Project Division e la compagnia militare privata K-group, di proprietà dei tre mercenari presenti. Anche l'aspetto pecuniario fu concluso con il versamento a ciascuno dei tre soci di venti milioni di euro frazionati in una prima tranche di cinque milioni disponibili subito in una banca di Lugano e una seconda di altri quindici milioni a contratto terminato, in un'altra filiale di Budva in Montenegro, sede della private military company.

La chiusura della riunione fu affidata a padre Livio che si soffermò sull'aspetto cospirativo della confraternita babilonese e sulla pericolosità degli appartenenti a questa tentacolare élite di potere diffusa su scala planetaria e infiltrata in ogni luogo di potere.

Dopo le consuete benedizioni il gruppo fu sciolto per la libera uscita.



























CAPITOLO 5: L'INFILTRATA

Londra, 25 aprile 2088- Regno anglo-rettiliano, Babilon Tower.



Il maggiore dell'esercito della confraternita Gregory Ford stava cavalcando accanto al suo amico, il sergente Henry Castle, e aveva appena terminato di condurre con i suoi uomini un'incursione a una ventina di chilometri dal settore est della muraglia di Londra. Quel settore esterno era una delle innumerevoli aree abitate dai così detti “selvaggi”, terre dove regnavano solo carcasse di auto razziate di tutto l'utilizzabile e capannoni corrosi dalla ruggine. Era una terra di nessuno che si estendeva tutto intorno al muro eretto dai rettiliani e dagli alleati umani. Un'immensa landa che il dopo collasso aveva privato per sempre di ogni traccia di civiltà. Nessuna casa degna di tal nome, nessun agglomerato urbano, nessuna pur minima struttura sociale, tutto perduto, tutto dimenticato. E proprio in quel luogo morto vivevano i selvaggi, come li chiamavano gli abitanti del regno. Esseri un tempo civili, ora vivevano come randagi tra cimiteri urbani di una metropoli dimenticata. Veri e propri monumenti eretti all'annientamento della civiltà umana.

Il convoglio a cavallo era composto da quaranta soldati e da una dozzina di carri-prigione. In questa sorta di gabbie ruotate a trazione equina venivano tenuti in cattività una moltitudine di selvaggi catturati in queste bad lands.

Gli sventurati erano stati sorpresi nel sonno dai soldati filo-rettiliani in un vecchio treno abbandonato su un’ancora più abbandonata linea ferroviaria. Dormivano ammassati come animali, su sedili bruciati e divanetti scardinati, seppelliti tra vecchi teli, cartoni e ogni genere di rifiuti. Denutriti, sporchi e dall'aspetto orribile, anche se tra loro vi era ancora qualche giovane donna gradevole e attraente. Quest'ultimo particolare era stato segnalato dai servizi segreti alla Babilon Tower, rinomata sede del governo della confraternita babilonese. I dirigenti stessi di tale organizzazione avevano subito avallato l'operazione militare. La loro fame di concubine per i loro harem era pantagruelica e il fatto che le ragazze fossero selvagge non era certo una limitazione. Dopo essere state catturate venivano lavate, nutrite ed educate per divenire il trastullo dei potenti dell'élite di potere.

Le sfortunate meno belle insieme ai selvaggi di sesso maschile finivano al mercato degli schiavi di Londra. La manodopera a costo zero era sempre richiestissima nelle miniere, nei campi agricoli e nelle fabbriche. Così, com’era richiestissimo il materiale umano che i sacerdoti rettiliani necessitavano costantemente per i sacrifici rituali dedicati al dio Moloch.

Ma in uno dei carri prigione vi era una giovane donna che non avrebbe certamente finito i suoi giorni in una miniera o su di una pietra sacrificale. Stava con il volto accostato alla griglia metallica fissando il nulla, mentre due cavalli guidati da un soldato seduto a cassetta trainavano il cigolante mezzo impregnato di vecchi umori di urina e feci che si erano indelebilmente attaccati alle pareti legnose.

Tutto il convoglio procedeva cauto e i militari sulle loro cavalcature erano sempre pronti a estrarre dalle fondine agganciate alle selle gli M16, quando il maggiore Ford ordinò alla colonna di arrestarsi e all'orecchio del sergente Castle sussurrò: “Fai riposare gli uomini. Tanto la muraglia di Londra non è distante. Devo fare una cosa.” Fece l'occhiolino all'amico e scese da cavallo, lasciando stupefatto il sergente.

L'ufficiale si diresse a passi svelti, verso la coda del convoglio, dove venivano tenute le prigioniere: “Soldato, apri subito il lucchetto della gabbia. Devo interrogare una schiava.”

Subito maggiore. Agli ordini.” rispose scattante un giovane soldato con l’espressione piena di sotto intesi.

La griglia si aprì e il maggiore afferrò per i capelli la giovane dall'aria spensierata. La tirò giù dal carro con un unico e violento strattone, facendola cadere in una delle tante grandi pozzanghere di melma fangosa che da decenni avevano fagocitato l'asfalto. La donna fece per protestare, ma il maggiore, senza darle il tempo di rialzarsi da terra, le sganciò un manrovescio deciso e poi la trascinò rudemente dietro una collinetta di detriti dove un tempo passava un'importante arteria stradale, ora solo una fetida rovina. Edifici sventrati, marciapiedi divelti, cartelli stradali rottamati e detriti di un mondo morto dappertutto.

Un luogo ideale per il maggior Gregory Ford, un bel posto appartato dietro un ristorante diroccato, ben nascosto da un improbabile occhio indiscreto e piacevolmente spazzato da un tiepido vento che trascinava stracci e foglie morte, ammucchiando in un angolo, un'invitante e morbida gibbosità. Un giaciglio ideale in quello scenario desolato, piatto e spettrale che pareva essere stato partorito dalla mente malate di chissà quale pittore preda di allucinazioni.

La donna fu scaraventata sul morbido avallamento e poi si trovò a due dita dal viso il volto furibondo dell'uomo che soffocando la sua voglia di urlare le disse: “Sei pazza maledetta donna. Vuoi mandare tutto al diavolo??”

Una bella bocca formosa incorniciata da un viso stupendo e dall'incarnato perlaceo. Due occhi a mandorla dalle iridi nere screziate da pagliuzze dorate. Un vero splendore anglo-cinese: lineamenti europei, occhi asiatici. Nome inglese, Gwen. Cognome cinese, Wang. Frutto di un capriccio tra una ricca donna inglese e un duro delle triadi di Hong Kong. Ventiquattro anni, alta un metro e settanta per 58 chili di pura flessuosità. Un vero mix di dolcezza e aggressività, la bella e la bestia. A diciannove anni prostituta di alta classe per ricchi inglesi, a ventuno killer dal cuore di ghiaccio per le triadi di Hong-Kong. Poi l'arresto per numerosi omicidi, la condanna all'ergastolo, evitata all'ultimo istante grazie all'intervento dell'Opus Dei e ora agente segreto inviato nel futuro come infiltrata da Mariano Gasperini.

Non era una selvaggia cresciuta nel catastrofico mondo del 2088, non aveva mai bevuto acqua putrida, non era sporca e non si era mai nutrita di ratti. E questo era evidente.

Il maggiore Ford inveì ancora. “Manca solo che ti facevi trovare truccata, così eravamo morti entrambi. Mi vuoi fare finire sull'altare sacrificale, o casa??”

Seguì un'altra sberla, ma stavolta la ragazza, lontano da occhi indiscreti, abbandonò la parte della giovane indifesa e bloccò fulminea con il gomito destro lo schiaffo del militare e con la mano sinistra aperta colpì con un “iron palm” il setto nasale dell'uomo che sanguinò all'istante.

Si era trasformata in ciò che era realmente, una splendida ma letale creatura, ideale per il suo pericolosissimo incarico da infiltrata.

Il militare rimase allibito e con le mani a coppa sul naso sanguinante ascoltò l'infuriata asiatica: “Senti bene scimmione, alza ancora una volta le mani e giuro che stavolta il naso te lo rompo davvero. Cosa dovevo fare di più, mi sono infiltrata tra quei poveracci, mi sono fatta catturare dai tuoi maneschi soldati, presto andrò a finire nel letto di quell'insetto che conosci bene e tu credi che mi faccia picchiare da te, il mio contatto, l'uomo che mi dovrebbe aiutare a sopravvivere in questo tuo mondo o linea temporale o come diamine si dice. Mi avevano detto che eri uno in gamba, invece temo proprio che voi di questo tempo siate tutti bestie!!”

Il maggiore, altrettanto inviperito, replicò: “Forse siamo delle bestie, noi gente del 2088, perché voi uomini e donne del passato non siete stati capaci neanche a riconoscerli, i rettiliani. Anzi, alcuni di voi ci sono andati d'amore e d'accordo. Comunque lasciamo stare queste cose e veniamo alla missione, miss “so tutto”: per prima cosa, sei troppo diversa dalle selvagge. La tua pelle è troppo vellutata, il tuo fisico è troppo perfetto. Insomma, non sembri una di loro.”

La donna cambiò nuovamente personalità, la tigre lasciò il campo alla gattina seducente. I suoi occhi allungati si illuminarono riflettendo una miriade di schegge dorate, e con voce calda e melodica, quasi ipnotica, disse al militare: “Allora è stata questa mia mancanza a suggerirti di picchiarmi e di pensare di violentarmi. Lo fai per la missione o perché ti piaccio?? Perché se ti piaccio, non c’è bisogno di fingere, basta dirlo!!”

Il viso del maggiore Gregory Ford avvampò di un rossore imbarazzante.

Novanta chili di muscoli forgiati nel sangue nemico si arenavano contro cinquantotto chili di seduzione bollente.

Quella ragazza era realmente l'infiltrato perfetto, un camaleonte mortale pronta a divorarsi l'insetto.

La provocante anglo-cinese tornò alla carica dell'intimidito militare, ammutolito da cotanta sfacciataggine, gli passò la lingua sulla gola e gli sussurrò: “Forza, violentami alla svelta. Tutto sembrerà più reale, fallo per la missione.”

All'istante l'uomo sentì un forte calore alla bocca dello stomaco e nemmeno si riuscì a ricordare l'ultima volta in cui gli fosse capitata una cosa del genere. Sempre se gli fosse mai capitata!!

Dieci minuti dopo il maggiore tornò tra i suoi soldati, la schiava era finita nuovamente sotto chiave e il plotone a cavallo si rimise in movimento.



Giunsero tutti all'interno della città dalla porta est della gigantesca muraglia che come un antico vallo romano divideva le terre di nessuno dalla civiltà. O meglio, da ciò che tentava di essere una società civile, retta dalla confraternita babilonese per conto dei padroni rettiliani. La confraternita era invero un governo fantoccio composto da umani agli ordini delle creature lacertiformi e fu proprio questo connubio razziale a erigere la ciclopica fortificazione di Londra.

Ma se la muraglia londinese e lo zigguratt erano il fiore all'occhiello dei rettiliani, la Babilon Tower era per gli alleati umani della confraternita il cuore pulsante di un potere che, pur essendo sottomesso alla razza padrona, era inarrivabile per le altre masse di umani. E proprio alla Babilon Tower si stava dirigendo con il suo prezioso carico umana la colonna a cavallo, ormai entrata in città.

Scusa Gregory, posso farti una domanda?” chiese ridacchiando dalla sua cavalcatura il sergente Henry Castle.

Certo.” rispose gentile il maggiore Gregory Ford, mentre si toglieva dal capo il cappuccio del parca mimetico. La pioggia era cessata e la temperatura si era stabilita sui venti gradi.

Dimmi maggiore, sbaglio o sei andato a violentare una schiava? Lo sai che è proibito? Quelle belle sono proprietà privata dei dirigenti.”

Gregory, rispose ridacchiando: “Perché, sei geloso? O vuoi fare la spia a tuo padre, appena entriamo nella Babilon Tower?”

Sai bene che non farei mai una cosa simile a chi mi ha salvato la vita in guerra quando ero una impaurita recluta. Ma, certo, non posso fare a meno di notare che stai cambiando. In meglio intendo. Ora in te non vi è più quell'assurda empatia verso i selvaggi. Loro sono solo le nostre bestie da lavoro, tutto lì. Lo so che anche tu, da ragazzo, eri uno di loro, ma ora lo hai dimenticato e hai fatto bene! Perché ora sei il più rispettato guerriero della confraternita e anche re Nagas ha apprezzato il tuo eroismo contro gli invasori di Nova Urbe e contro i razziatori. Ora sei diventato un mito!

Peccato che non potrai mai diventare un dirigente. Purtroppo, come sai, il ruolo è tramandato da padre in figlio dai tempi d'oro di Babilonia. Ma non disperare. Forse per una personalità come la tua potrebbe intercedere direttamente il consiglio scarlatto dei rettiliani. Loro se vogliono possono tutto.”

Il maggiore, sul suo cavallo, si eresse in tutta la sua statura in modo imperioso, armato fino ai denti di pistola fucile d'assalto e svariate bombe a mano. Sembrava proprio un antico condottiero. Almeno così appariva a tutti i quaranta soldati del convoglio, i quali lo rispettavano moltissimo, così come lo ammiravano molti pezzi grossi dell'élite dirigenziale. Soprattutto John Castle, il potente dirigente della confraternita, a cui il maggiore aveva salvato da morte certa il figlio.

Fu proprio il ragazzo, a continuare la conversazione: “Sai che i selvaggi sono ghiotti di kebab di ratti?”

Guardando il cielo latteo e pensando alla stupidità del giovane, il maggiore rispose: “Non è che sono ghiotti di carne di topo, è che non hanno molto da scegliere. Noi del regno anglo-rettiliano alleviamo maiali, mucche, pecore e polli. Abbiamo schiavi che li accudiscono e che coltivano il terreno: mele, grano, luppolo. Insomma abbiamo una buona scelta di cibo, loro no. Ricordo che quando ero ancora un ragazzino, prima di entrare nell'esercito, vivevo come loro e mangiavo come loro, cioè come un cane randagio, o forse peggio. Un giorno, vicino all'estuario del Tamigi, vidi molti uomini dalla pelle olivastra, tutti vestiti con un caffettano lungo fino ai piedi. Avevano tutti minacciose barbe lunghe ed erano armati di kalashnikov. Erano arabi che controllavano tutto quel settore, che un tempo ospitava i magazzini di stoccaggio merci. Avevano volti scolpiti nella pietra e occhi assassini, stavano intorno a una bancarella ricavata dall’androne di un edificio abbandonato dove un altro arabo cucinava su una griglia recuperata chissà dove, il che mi stupì assai. Mi avvicinai, tenuto d'occhio da quei brutti ceffi, intenti a rosicchiare del cibo in piedi. Poi, osservai meglio quella leccornia che emanava un profumo stupendo. Non dimenticare che non mangiavo da giorni. Sulla griglia, posta verticalmente sul fuoco, stavano arrostendo spiedi di topo dalle zampette ritorte e bruciacchiate. Sì, erano proprio carcasse di topo cotte sul fuoco vivo, che poi venivano tagliati verticalmente e, come veri kebab, conditi con salse speziate e serviti nella classica pita. Quasi vomitai alla vista di quell'immondo pasto, quando un omaccione dalla barba ispida come il ferro mi chiese che se volevo mangiare dovevo pagare. Ma con cosa? In quel posto vi era di tutto: dentro ai magazzini abbandonati si poteva trovare alcol, droga, armi e prostitute, ma bisognava pagare. Io non possedevo nulla e visto che il denaro di famiglia che avevo nello zaino non andava più bene neanche per fare del fuoco, ero mal messo. L'essere umano aveva ucciso e rubato per possedere il denaro, e ora non valeva nulla, era morto insieme alla civiltà. L'arabo mi disse che se non possedevo nulla da barattare avrei potuto svolgere dei lavori per loro in cambio di cibo. Quando appresero che ero figlio di un armaiolo e che io stesso ero abile nelle riparazioni, mi misero subito alla prova con degli AK47 con guasti alla leva d'armamento o alle molle dei caricatori. Gli riparai di tutto, dagli AK alle pistole Makarov. Gli tarai a puntino un'ottica di un fucile di precisione Dragunov così bene da mandarli in visibilio, quegli arabi.

Mi fermai con loro tre mesi, provai di tutto. Ero un ragazzo.

E in quei tre mesi mangiai con gusto tonnellate di kebab di topo. La carne era preparata e marinata così bene nelle salse che pareva pollo. Fumai il loro hashish, molto hashish e frequentai le loro meretrici. Poi me ne andai.

Volevano convertirmi a tutti i costi all'islam, così fuggii da quel covo di predoni, ma con qualche rimpianto.”

Meravigliato, il giovane sergente disse: “Certo che da giovane ne hai viste di tutti i colori. Io invece da ragazzino, per fortuna, avevo tutto. Con un padre pezzo grosso della confraternita non poteva essere altrimenti. Spesso, il mio vecchio mi dice che terminata la ferma quinquennale militare entrerò nella classe dirigenziale, dove godrò di ogni lusso. Immaginami già sulla mia auto personale, altro che questi ronzini. Senza dimenticare le donne illimitate e il potere su tutto e su tutti. Niente mense e docce pubbliche, solo ricchezze e proprietà privata.”

E proprio ricchezze e proprietà private stavano spuntando alle spalle delle case fatiscenti e delle baraccopoli. Un enorme cetriolo tecnologico, alto 370 metri, con oltre con oltre 90mila metri quadri, riservati ai manager della confraternita, si ergeva a monito sul popolino sottomesso. Si trattava di un ex grattacielo in 30 st. Mary Axe ed era stato aperto al pubblico il lontano 28 aprile 2004; nel 2005 era stato eletto l'edificio più ammirato al mondo in virtù della sua particolare forma aerodinamica, progettata dall'architetto britannico Norman Foster al fine di evitare le turbolenze d'aria. Prima del collasso tutti i londinesi lo chiamavano familiarmente il “cetriolo” poi l’élite umana postpsico-peste l’aveva ribattezzato Babilon Tower. In origine la società proprietaria dell'edificio era la Swiss-re, un potentissimo gruppo assicurativo svizzero controllato segretamente già all'epoca dai rettiliani. Ma, dopo la psico-peste, la Swiss-re era morta perché non vi era più nulla al mondo che valesse la pena di assicurare e perché la società del benessere era divenuta storia antica.

Il convoglio si fermò al mercato degli schiavi, battuto da un violento acquazzone che cadeva giù dritto e iroso contro i tetti di lamiera dei magazzini. Il cielo, nonostante fosse albeggiato già da un po', si fece nero come la pece, squarciato qua e là da lontani fulmini che riflettevano sulle baracche luci biancastre e inquietanti.

Tutti i carri prigione furono svuotati del loro carico umano sull'asfalto spaccato e martoriato dall'incuria e dall'abbandono, inevitabile conseguenza di trent'anni di caos.

Gli schiavi poco solerti ad alzarsi dal lurido suolo venivano colpiti senza riguardo con i calci dei fucili dei militari. Grazie a questo trattamento d'urto, tutti gli sfortunati abitanti delle terre di nessuno vennero rapidamente radunati e consegnati alla polizia del regno. I tutori dell'ordine, a norma del regio decreto, erano incaricati di imprigionare gli schiavi in apposite celle dove venivano lavati e nutriti e poi venduti all'asta del mercato cittadino a privati o all'amministrazione pubblica per gli impieghi più ingrati.

Questo inumano trattamento non fu certo esteso alle donzelle scelte per divenire le concubine dei potenti della confraternita babilonese. Infatti il carro-prigione che trasportava il prezioso carico proseguì verso la Babilon Tower sotto una pioggia battente e sotto l'occhio vigile di un plotone militare al comando del maggiore Ford e del sergente Castle.

Durante il tragitto costellato da un monocromatico panorama grigiastro il maggiore prese a parlare all’io malinconico che albergava nella sua mente triste: “Abbiamo distrutto un mondo molto migliore di questo surrogato d’inferno, dominato da questi mostri squamosi senza sentimenti. Non potremo mai più entrare in un cinema, gustarci una mostra di quadri o fare shopping in una strada brulicante di vita, nulla sarà come prima. Il mondo del dopo collasso è solo morte, tenebre e tristezza. E noi l'abbiamo preferito a uno fatto di vita, luce e gioia!”

A cosa stai pensando Gregory? Sei così cupo.” borbottò il giovane sergente.

Nulla di importante, stavo pensando alle schiave che consegneremo ai dirigenti. Mi sembrano carine. Dopo che saranno lavate, vestite e truccate negli appositi centri di bellezza per concubine dovrebbero essere ottime per soddisfare i nostri capi, che tanto hanno fatto per salvare la civiltà.” rispose il maggiore occultando l'odio segreto che nutriva per i rettiliani e per quei satrapi umani che, per mantenere i loro privilegi, condividevano con i loro padroni squamosi culti diabolici e sanguinari. Lui stesso aveva sofferto tantissimo quando si era dovuto vendere a quella malvagia genia, ma era un ragazzo solo e affamato in un mondo in cui l'unico ideale era sopravvivere.

Come militare al servizio della confraternita ebbe subito cibo, acqua per lavarsi e la certezza di un giaciglio, un vero lusso in quel mondo regredito allo stato larvale. Ma quei piccoli-grandi privilegi da tempo gli pesavano sulla coscienza sopita come un macigno. I mesi e gli anni passavano, ma il disagio non regrediva, anzi si dilatava a dismisura. Anche l’antica fede che giocoforza aveva rinnegato tornava prepotentemente a bussare alla porta del cuore. Gli mancavano la preghiera e l'intimo colloquio con il signore nel silenzio di una chiesa e poi vi era quel blasfemo marchio a fuoco sul dorso della sua mano sinistra. Un maligno gufo impresso con un ferro rovente nelle sue carni, a simboleggiare Moloch e la sua sottomissione ai rettiliani. Suo malgrado si era dovuto convertire ai sanguinari culti babilonesi o morire spalando sterco come uno dei tanti schiavi che attende con ansia la morte per sfinimento, come una liberazione. Ma lui voleva sopravvivere a tutti i costi perciò si convertì e fece una carriera incredibile nell'esercito. Il suo compito era uccidere i soldati nemici di Nova Urbe e i soldati umani che combattevano i rettiliani; questo era ciò che doveva fare e lo faceva bene. Catturava anche schiavi tra i selvaggi, per poi vederli morire sulla pietra sacrificale o nei cantieri della muraglia di Londra. A questo si era ridotto per un pasto caldo. Com’era caduta in basso l'umanità.

La volta che toccò il fondo come uomo fu quando condusse un attacco ai danni di una piccola comunità di cristiani odiatissimi dai rettiliani. Fu una vergognosa carneficina, un centinaio di innocenti furono uccisi dalle raffiche dei fucili d'assalto, migliaia di proiettili calibro 5,56 si abbatterono sui poveretti martoriando carne, strappando tendini e spaccando ossa. Morirono in modo atroce tra urla, sangue e feci. Tutti crivellati in una chiesa abbandonata ai tempi della psico-peste e successivamente era stata riutilizzata come rifugio e luogo di culto.

La sua coscienza non resse, il peso della colpa era troppo forte anche per un assassino come lui. Quegli ingannatori al servizio dei mostri squamosi lo avevano rovinato per sempre e ora era veramente perduto. Così, in una notte nera come la tenebra balzò sul suo cavallo e uscì dalla città, mentre i suoi sottoposti obbedienti gli aprivano la saracinesca d'acciaio che si spalancava sul nulla. Galoppò a lungo e infine giunse sul luogo maledetto. La chiesa era ancora lì, con la sua atmosfera lugubre e pesante come la colpa. I cadaveri erano stati rimossi, probabilmente da altri disperati, sempre pronti a divorare ogni cosa. Nulla sopravviveva a quei tempi, tutto veniva divorato, corpi e anime comprese.

Il maggiore si guardò nauseato la mano sinistra, sputò con forza sul marchio blasfemo impresso indelebilmente sulla pelle, si segnò e chiese perdono a Dio del gesto estremo. Estrasse la grossa semiautomatica calibro 45, mise il colpo in canna e la diresse verso la tempia destra. Un forte botto e poi sarebbe giunto l'oblio. Tutto sarebbe stato meglio che vivere in quel rimorso ossessionante. Il dito mandò in trazione il grilletto e proprio quando il cane dell'arma stava per esplodere il colpo fatale, una voce lo fermò e gli disse che per espiare delle colpe vi erano dei modi più costruttivi. L'uomo vestito di stracci non era un selvaggio, bensì un magister inquisitionis di Nova Urbe: alto, austero, fisico asciutto e nervoso, con la tonsura nascosta da una pezza avvolta sul capo. Il religioso guerriero era in missione di reclutamento, si chiamava Johannis Giustiniano e cercava un'anima da redimere, una scheggia di luce impazzita da scagliare contro i rettiliani e i loro servi umani.

Da quel giorno il maggiore Ford divenne la quinta colonna di Nova Urbe, una segreta lama di luce piantata nel ventre putrescente dell'oscurità rettiliana.

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